La vita tremula
Storia dei Campi Flegrei, la terra che non sa stare ferma, tra letteratura e piani d'evacuazione
Hai voglia a dire “niente panico”. Sembra che l’ansia lieviti incontrollata, per paradosso proprio a causa dell’eccesso di informazioni di cui si deplorava un tempo la scarsità
Ho smesso di leggere”: per mezzo milione di persone sarebbe forse meglio emulare la decisione di Duccio, quel personaggio della serie tv Boris che aveva spento in questo modo le sue ansie. Sarebbe salutare non leggere i social né i giornali e silenziare i notiziari per quasi 500 mila abitanti dell’area flegrea ricompresi nella “zona rossa” e destinati, nel caso di eruzione vulcanica, a una impresa davvero improbabile. L’immediata evacuazione di massa.
Da Monte di Procida a Baia, da Pozzuoli a Bacoli e Quarto, compresi i residenti in una estesa zona di Napoli che va da Agnano a Posillipo, da Mergellina ai Camaldoli, dovrebbero tutti e subito abbandonare casa e confluire nelle aree prestabilite per essere sfollati (“in nave, treno o pullman”) verso diverse regioni d’Italia “gemellate”. Il Piano nazionale di Protezione civile appena aggiornato prevede quest’esodo senza precedenti e di imprecisato ritorno, che si dovrebbe realizzare in appena 72 ore (costo 52 milioni di euro), anche se diverse “vie di fuga” individuate dal 1984, data dell’ultima crisi bradisismica, sono rimaste infrastrutture incompiute.
La grande evacuazione sarebbe preventiva alla piccola apocalisse, che consisterebbe in un’enorme fontana di lava sprizzante dalla “caldera” flegrea, o per dirla con le parole dei vulcanologi nella “invasione di flussi piroclastici che, per le loro elevate temperature e velocità, rappresentano il fenomeno più pericoloso per le persone”. Sarebbero invece esposti al solo rischio di “ricaduta di ceneri vulcaniche”, con allontanamento temporaneo, i più fortunati abitanti della “zona gialla”, comprendente la residua parte di Napoli e alcuni Comuni dell’entroterra più distanti da Pozzuoli che dal Vesuvio, che appare oggi per paradosso una presenza rassicurante. La montagna è viva ma sonnacchiosa, con “un livello di attività sismica generalmente di bassa energia” (i tifosi delle squadre di calcio avversarie dovrebbero rivedere i cori malauguranti per il Napoli, che quest’anno gioca col Vesuvio perfino stampato sulle magliette).
Nei Campi Flegrei si registrano all’opposto mesi e mesi di sciami sismici a ripetizione, più di millecento scosse nell’intero settembre quasi tutte rilevate solo dai sismografi dell’Istituto nazionale di geofisica e dell’Osservatorio Vesuviano, ma alcune avvertite dalla popolazione anche a Napoli. Tra le più recenti quelle di magnitudo 4.2 del 27 settembre e di magnitudo 3.6 del 16 ottobre. Tremolii, brontolii, scuotimenti assorbiti dagli umori della gente, specialmente la più vicina alla Solfatara, mentre il suolo si è innalzato fino a quindici millimetri al mese nel corso dell’anno. Non è l’emergenza che tra il 1983 e il 1984 sollevò Pozzuoli di oltre un metro e mezzo. Nemmeno quella che nel 1970 portò allo sgombero del Rione Terra, il quartiere secentesco della cittadina. Un provvedimento inutile, perché gli antichi palazzetti sono rimasti, dopo più di cinquant’anni, saldamente in piedi mentre le 2.624 famiglie che li occupavano vennero messe in ginocchio per sempre.
La grande evacuazione sarebbe preventiva alla piccola apocalisse, “invasione di flussi piroclastici a elevate temperature e velocità”
Il bradisismo non è mai stato monitorato con assidua cura come adesso. L’educazione ai rischi è stata affinata con numerose iniziative di divulgazione. Eppure sembra che l’ansia lieviti ugualmente incontrollata, come il magma sotto la superficie, per paradosso proprio a causa dell’eccesso di informazioni di cui si deplorava un tempo la scarsità. Con la razionalità dell’ingegnere, la stessa professione del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il primo cittadino di Pozzuoli Gigi Manzoni si è rivolto all’Ordine degli psicologi per avviare un progetto di assistenza tra il personale delle scuole e gli studenti.
Hai voglia a dire che il bradisismo non uccide, come hanno dimostrato le due crisi di fine Novecento. Che le verifiche sugli edifici pubblici e privati sono condotte con cura. Che ogni respiro della Solfatara è catturato e valutato. Che se una scossa ti ridesta dal sonno non ti farà dormire eternamente ma ti terrà all’impiedi solamente per un po’. Perché succede invece che al mattino leggi i giornali (“un’altra notte di paura”); perché se hai più curiosità compulsi il Piano di evacuazione sul web e non sembra precauzione dovuta ma una ipotesi alle soglie, sicché pensi che avrai giusto il tempo di riempire un trolley, correre al punto di raccolta e poi ti spediranno in Veneto o in Sardegna (sistemato come e dove Dio lo sa). Perché apprendi che il capo della Protezione civile regionale è stato audito in commissione alla Camera (e all’indomani il quotidiano locale gli virgolettava a sei colonne: “In caso di eruzione via 500 mila persone”). Perché ti imbatti online nell’animazione della catastrofica eruzione simulante un flusso di lava sanguigna che sommerge tutta la carta geografica, e va bene che è un modello di quanto accadde migliaia di anni fa. Però a pensarci l’eruzione da cui spuntò, in quarantott’ore, il cosiddetto Monte Nuovo risale appena al 1538, ossia meno di cinquecento anni orsono. E poi vieni a sapere che la Marina statunitense, di stanza vicino a casa tua, s’è allertata a sua volta e si sa, gli americani si organizzano prima degli altri: così visiti la pagina Facebook della US Naval Support Activity Naples dove un post avverte il personale che “in questo momento non ci sono state modifiche ai livelli di allerta, ma terremo d’occhio l’attività nella regione dei Campi Flegrei e il nostro processo decisionale sarà sempre incentrato sulla sicurezza della comunità prima di tutto”. Ne conseguono tre consigli e il terzo esorta a confezionarsi un kit di emergenza che “tutti dovrebbero avere a casa, in macchina e al lavoro”. Mamma mia.
Sicché da cosa nasce cosa e da ansia nasce ansia. Con senso del marketing e un acino di sadismo, e forse perché è anche un buon libro, alla Feltrinelli della Stazione Centrale partenopea hanno ricollocato in bella mostra il romanzo Fuoco su Napoli di Ruggero Cappuccio del 2010, ristampato meno di un anno fa, che monta l’ansia sulla finzione. Niente spoiler perché l’incipit può bastare: “Al massimo tra cinque mesi Napoli finirà di esistere. Al massimo tra cinque mesi Napoli non ci sarà più. I Campi Flegrei ci stanno preparando il benservito. La città sarà distrutta. Ci sarà una violenta esplosione iniziale. Si formerà una colonna eruttiva che darà vita a gas incandescenti, frammenti di magma e di rocce che saranno scagliati a decine di chilometri di altezza”. Ecco. Proprio come nel Piano nazionale, che romanzo non è, con quella ”invasione di flussi piroclastici che, per le loro elevate temperature e velocità, rappresentano il fenomeno più pericoloso per le persone”. Una volta ci proteggeva san Gennaro, martirizzato vicino alla Solfatara dove ancora s’arrossa il presunto ceppo della sua decapitazione mentre a Napoli si scioglie il suo sangue. Ora ci pensa lo psicologo delle emergenze a mantenere le teste altrui sul collo. I puteolani del 1538, del 1970 e anche del 1984 non lo avrebbero potuto immaginare.
“C’è chi al termine di una scossa vive la quiete dopo la tempesta e chi invece la considera una quiete prima della tempesta”, dice Davide Morganti
Soltanto si sapeva, e s’è sempre saputo, di campare su una terra che scende o sale ma ferma veramente non sa stare mai. Nel film muto Assunta Spina del 1915, tratto dal dramma di Salvatore Di Giacomo, alcuni esterni mostrano che a Pozzuoli si camminava sulle passerelle per l’acqua alta come a Venezia. Perché, mentre Francesca Bertini girava la pellicola, c’era una fase di bradisismo discendente. Con l’angoscia di calare sempre più nel mare. Su e giù va una città che tra nonni e nipoti è lei ma non è mai la stessa, prezzo bizzarro da pagare alla storia tessuta sul suo mito. Obolo da offrire al VI libro dell’Eneide, tra il lago d’Averno con le ombre dei padri trapassati e la Sibilla che affidava i responsi alle foglie di alloro e alla furente voce, nell’antro dove formano pulviscolo le ceneri del poeta Michele Sovente, morto nel 2011, che lì le volle sparse e componeva in latino, italiano o nell’idioma locale (“… fluttuando prende un’ombra / a raccontare, mentre tutto / il fuoco in fondo nuove bocche / spalanca. Diletti miei phlegraei campi / infetti dove sine die l’immobilismo / si allea con il bradisismo!”).
“La letteratura è una necessità di certi luoghi”, ci dice lo scrittore Davide Morganti, che a Pozzuoli si è stabilito nel 2000 e vi ambientò un romanzo dal titolo emblematico: L’asciutto e la marea. Metafora evidente. Morganti insegna all’Istituto tecnico Vilfredo Pareto di Arco Felice e con i suoi sessanta alunni di tre differenti classi ha dovuto spesso sospendere le lezioni e guadagnare il cortile all’arrivo di una scossa, per rientrare in aula qualche minuto dopo come prescrivono i protocolli di sicurezza. “Tra gli abitanti c’è chi soggiace all’ansia e chi no. Ci sono due tipi di attesa: che lo sciame sismico finisca e che ne cominci un altro. C’è chi al termine di una scossa vive la quiete dopo la tempesta e chi invece la considera come una quiete prima della tempesta: quella di una Scossa con la ‘esse’ maiuscola”, osserva Morganti. “Si alternano i due stati d’animo meridionali: l’allarmismo e il fatalismo. Alla lettura del Piano di evacuazione, con l’ipotesi utopistica di sgomberare mezza Napoli e dintorni, s’accompagnano tante fake news sparse sui social. Nella pandemia eravamo tutti virologi, adesso siamo tutti vulcanologi”. Passeggiando per Pozzuoli non si avverte palese paura, ma appena fuori città ogni transito di camion induce a sincerarsi che non si tratti di un’altra vibrazione della terra.
Claudio Correale, artista fotografico e divulgatore, custodisce la memoria del bradisismo con l’associazione Lux in Fabula in un copioso archivio digitalizzato grazie al volontariato di centinaia di giovani, che include toccanti testimonianze visive e sonore. Come le voci degli antichi sfollati la cui eco sarebbe altrimenti svanita. E’ la Spoon River dei deportati dal Rione Terra, sgomberati il 2 marzo del ’70 per improvvida paura prefettizia sulla base di cinque scosse strumentali registrate dall’Osservatorio Vesuviano, gloriosa istituzione allora diretta dal geofisico Giuseppe Imbò, fallibile luminare. Strappati da casa dai militari “per motivi precauzionali”, caricati sugli automezzi dell’esercito col poco che riuscirono a portare con sé, i profughi vennero tradotti al manicomio del Frullone appena costruito e poi furono ricollocati nel nuovo Rione Toiano. Abbandonato agli sciacalli, il vetusto quartiere fu completamente saccheggiato: dalle preziose balaustre di marmo alle inferriate del Seicento fino alle misere suppellettili lasciate negli appartamenti.
Nel ’70 “tutti subito fuori: fu una prova di forza dello stato, una deportazione per cui nessuno ha pagato”, dice Eleonora Puntillo
Oggi il Rione Terra – patrimonio indisponibile del comune di Pozzuoli – ospita mostre, botteghe, convegni e fantasmi. Poche settimane fa, nello spazio espositivo di Lux in Fabula, si presentò a Correale un’anziana coppia. Il signore chiese di andare in bagno e sapeva la strada. Cinquantatré anni fa quelle mura erano state casa sua e di una numerosa famiglia per una pigione di diecimila lire al mese: qui stava la cucina, lì la camera da letto, di là dormiva la suocera. Il ritorno sollecita memorie che il cuore disordinate ripropone: i ragù della domenica, le prime comunioni, il pallone dei bambini, il nome di una sarta. Se fossero rimasti il bradisismo non li avrebbe uccisi, ma a che serve ripensarci se intanto questa vita se n’è andata altrove.
“Tutti subito fuori: fu una prova di forza dello Stato, una deportazione per cui nessuno ha pagato. La jeep con l’altoparlante della polizia girò tutto il giorno ordinando l’evacuazione per motivi precauzionali e destò il panico anche nel resto di Pozzuoli. La città si svuotò all’improvviso di decine di migliaia di residenti. Chi non era stato sgomberato scappava temendo il cataclisma. Adesso, tra una scossa e l’altra, non dimentichiamoci di questo”: Eleonora Puntillo fu testimone da giovane cronista dell’Unità di quegli eventi e di quelli dell’84, tutto ricorda e vuole che tutti adesso ricordino: “Per affrontare senza panico la nuova crisi”. Per realizzare il museo interattivo sul bradisismo, che è già stato finanziato ed è stato promesso dal sindaco nel programma elettorale. Per evitare gli isterismi dell’84, quando la gente esasperata dalle scosse e dalla mancanza di chiarezza sul proprio destino bloccò le strade, scappò nei camping della costa domiziana, rimase senza un tetto e finì in un altro quartiere dormitorio, a Monterusciello, dove le case subito invecchiate hanno richiesto incessante manutenzione.
S’è alzata la terra, dal 2006 a oggi, di un metro e 15 centimetri: le vecchie generazioni misuravano empiricamente il suo livello al Tempio di Serapide del secondo secolo dopo Cristo. Nessun rudere romano è mai caduto per la terra ballerina e l’anfiteatro Flavio, che conteneva 40 mila spettatori, è tuttora fruibile. Quel Tempio è stato preso a simbolo della moderna geologia, perché fu dai segni sulle sue colonne che lo scozzese Charles Lyell intuì, nel 1828, il fenomeno del bradisismo. Ed è inciso sulla medaglia che la Geological Society of London attribuisce ogni anno, come un Nobel, a uno scienziato della terra: l’ultima volta l’ha ricevuta Peter Clift, con una cerimonia tenuta a Pozzuoli il 29 settembre scorso. A chi glielo chiedeva lui ha detto che sì, c’è la possibilità di una eruzione ma “non è imminente”. Intanto, smettiamo di leggere. Forse la terra ricomincerà lentamente a scendere e allora la paura sarà di bagnarci.