1947-2023
In memoria di Lanfranco Pace
Lode all’indisciplina con metodo, allo scetticismo e al talento di un meraviglioso compagno di strada. In anni orrendi era entrato in molte subdole controversie, e non era controverso affatto
Di un amico ci si domanda chi fosse quando non c’è più. Con Lanfranco Pace le risposte sono improbabili, la risposta impossibile. La sua amabilità vitale, la sua indisciplina con metodo, un fondo di dissipazione costruito su un grande talento, tutto questo vela e pregiudica la delineazione di un ritratto razionale. Venne qui da noi tanti anni fa come collaboratore, nonostante sconsigli a proposito del suo trasferimento da Parigi, dove era un latitante circondato da grandi affetti e da allegria nelle case delle sue amiche e dei suoi amici di Boulevard Voltaire e di Oberkampf, dove faceva il guru il mammo e il Dude Lebowski. Gli si diceva che la sua milizia da pubblicista senza troppi controlli e da militante di un esperimento riformista anomalo, ma ordinatino, composto, un tanto snob, era per noi una benedizione, un acquisto d’oro, ma lui era nato per la latitanza, per lo straniamento, per un vivere nascosto, per un epicureo lathe biosas, e non sarebbe stata facile la vita italiana di questi tempi malgrado l’amicizia di noi non tanto spensierati Falstaff di Berlusconi, come ebbe la cortesia di definirci sul suo primo giornale, Libération. Oppose un’obiezione ineccepibile, definitiva: Serge July, il mio direttore, mi ha chiesto un pezzo sulla rentrée scolaire, non è il mio genere.
La tribuna sartriana e un po’ maoista, poi foglio fluido di una modernizzazione affollata di errori e bisticci, gli poteva anche andar bene, gli garantiva la sussistenza e l’incertezza dell’identità, lo teneva lontano dal ricordo mugugnante e rammaricato delle sue folli avventure italiane d’un tempo negativo e ottuso vissuto con un incredibile candore, ma la rentrée scolaire no, quella no, meglio le allegre comari del Foglio.
Il suo genere in effetti era l’opposto del mestiere, era l’incompiuta di tutti i mestieri o di tutte le virtù dello scrivente senza bussola. Nel trattamento del calcio, nella politica, nel costume, nelle idee e nelle passioni ci è stato meraviglioso compagno di strada, e nella quasi impossibilità di chiudere un articolo o poi un servizio televisivo in tempo utile, era l’archetipo della mentalità aperta, di una certa strana libertà nella coltivazione anche del pregiudizio e dell’incostanza. Il suo volto malinconico e solare, largo e plasticamente diviso tra origine britannica e stirpe abruzzese, il suo concentrato purissimo di simpatia e disponibilità, il suo spietato disinteresse per l’accumulo, l’intuito senza sicurezza compensato dalla boria dell’esperto di vita, perfino i suoi amori e le sue distrazioni emotive ci fornivano un’assicurazione: siamo di certo, come quasi tutti, una manica di amici stronzi, ma di tanto in tanto può riuscirci un lavoro ben fatto. Si inseriva alla perfezione nel lavoro della fronda, che fu una guerra politica temperata da moralismo sottile e ironia, da sprezzatura e incanto di una comunità combattuta e combattente.
Lanfranco Pace era entrato in anni orrendi in molte subdole controversie, e non era controverso affatto. La sua linearità era una sola cosa con il suo scetticismo, il suo scetticismo era un metodo positivo, un modo di perdersi solo perché si sa che ogni ritrovarsi ha un fondo banale. Questo gli dava la virtù della licenza, la stupenda imprevedibilità, l’intelligente indolenza per cui lo abbiamo ammirato sempre, anche quando era insopportabile. E come scriveva. Speravo di collaborare con lui nella stesura di una denuncia contro Camillo Langone per maltrattamento letterario degli animali, uno degli ultimi suoi impulsi aforistici, invece è morto a Messina di un rapido declino accanto alla sua ultima compagna, dopo avere salutato sua figlia Sara.