Ladri di fortuna
Le formidabili truffe per truccare le estrazioni del lotto
Potrebbe sembrare un sequel dei "Soliti ignoti", ma qualcuno in Italia nel corso della storia è riuscito a truffare le famose estrazioni, come in "Accadde a Lisbona"
Da “Accadde a Lisbona” a “Fortuna criminale”, potremmo sintetizzare. “Accadde a Lisbona” fu lo sceneggiato della Rai in cui nel 1974 Paolo Stoppa interpretò Artur Virgílio Alves dos Reis: il portoghese che nel 1925 riuscì a falsificare le firme dei dirigenti della Banca del Portogallo su una serie di documenti con cui chiese la stampa di un ingente quantitativo di banconote da 500 escudos alla stessa ditta inglese che stampava i biglietti ufficiali. Essendo le monete false nel senso che non erano state commissionate dallo stato ma al contempo vere nel senso che venivano dalla stessa “fabbrica”, il raggiro riuscì perfettamente, e con le 200.000 banconote ottenute la banda poté addirittura fondare una banca per riciclarle in attività finanziarie. Ma poi tutto fu scoperto, e i paradossali falsari finirono dentro: lo sceneggiato mostrava un errore nelle istruzioni per cui vennero stampate due banconote entrambe formalmente autentiche, ma con lo stesso identico numero di serie.
Tuttora, è considerata la più grande truffa mai perpetrata ai danni di una banca nazionale, ma forse non è più la più grande truffa di tipo finanziario di un ente pubblico. Probabilmente non come cifra, ma sì come ingegnosità deve averla superata la truffa che venne fatta tra 1995 e 1998 in Italia ai danni dell’Ispettorato generale per il lotto e le lotterie presso il ministero dell’Economia e delle Finanze. “Operazione dea bendata” fu chiamato il blitz del commissariato di Cinisello Balsamo con cui furono arrestate nove persone, accusate di avere truccato le estrazioni del lotto. E “Fortuna criminale” è il titolo del libro da poco uscito per Longanesi in cui la vicenda è narrata da un giornalista il cui nome di Fausto Gimondi sembra una summa del miglior ciclismo italiano d’antan (e infatti l’autore è il nipote di Felice Gimondi.
A suo modo appropriato, perché per molti versi questa storia sembra appartenere al dna italiano più profondo, cui la Commedia italiana ha costruito un monumento. In particolare, sembra un sequel dei “Soliti ignoti”, la storia del 19enne Mario, che dopo aver trascorso un’adolescenza con poche speranze tra i palazzoni dell’hinterland milanese di Cinisello Balsamo e le scommesse all’ippodromo di San Siro incrocia la sua sorte con quella di una strampalata banda che scopre il modo di truccare le estrazioni della ruota del Lotto di Milano. Un piano eccezionale per la sua disarmante semplicità, concepito e messo in atto da Peppino lo zoppo e Ciccio nello scantinato di un palazzo popolare, che per ben tre anni frutta migliaia di vincite, distribuite in tante ricevitorie. Qual è la trovata? Esattamente come nell’“Audace colpo dei soliti ignoti” c’è la talpa di un ragioniere del Totocalcio per organizzare la rapina che dovrà avvenire durante il trasferimento dell’incasso delle giocate, qui c’è di mezzo la talpa di un impiegato dell’intendenza di finanza. Per caso, ha scoperto il precedente di un collega che prima di andare in pensione è riuscito a manipolare qualche estrazione, in modo da arrivare a darsi una buonuscita di oltre un miliardo.
“Perché lui e non io?”, diventa la sua ossessione. Che è poi il caso più particolare di una più generale ossessione nazionale, a sua volta ben fotografata dal cinema nazionale. “Totò e i re di Roma” è ad esempio il film del 1951 di Steno e Mario Monicelli tratto da due racconti di Anton Cechov in cui un Totò impiegato ministeriale vessato decide di morire apposta per poter dare alla moglie i numeri da giocare al lotto per far uscire la famiglia dalla miseria.
Dopo avere scoperto che anche l’altro mondo è dominato da uffici e carte bollate, cercando di arrangiarsi in stile aldiquà cerca di comprarli al mercato nero, ma è sorpreso da angeli-guardie che lo portano di fronte a un irato Padre Eterno-capoufficio. “Sono stufo di tutte le vostre lagnanze, voglio dare un esempio che serva di monito a tutti!”, minaccia. Ma poi, quando Totò si lascia sfuggire che ha lavorato al ministero: “Tu sei stato trent’anni impiegato statale?! In paradiso!”. Pace e Terna, secondo la nota battuta…
In certe credenze popolari, i sogni possono dare i numeri non solo per comunicazione diretta dei defunti, ma anche per associazione alle immagini sognate: una “sapienza” tradizionalmente custodita da almanacchi, ma anche nelle “smorfie”. Parola forse derivata dal dio pagano del sonno Morfeo, per indicare i dizionari in cui venivano nascosti i significati numerici già derivante dalla tradizione orale, e di cui la più famosa è la Smorfia napoletana. “1 L’Italia 2 ‘A piccerella 3 ‘A jatta 4 ‘O puorco 5 ‘A mana 6 Chella ca guarda nderra(=organo sessuale femminile) 7 ‘O vasetto 8 ‘A Maronna 9 ‘A figliata 10 ‘E fasule…”. Eccetera. Da una parte, però, l’analfabetismo era diffuso. Dall’altra, se 22 è ‘O pazzo e 23 ‘O scemo, come si fa a decifrare la sottile sfumatura che può valere la combinazione vincente? Da qui la necessità di un vero e proprio specialista, chiamato a Napoli “l’Assistito”.
Mestiere prestigioso, ma anche pericoloso. “Talvolta i giuocatori delusi bastonano l’assistito, poi gli chiedono perdono”, testimonia nel 1884 Matilde Serao nel “Ventre di Napoli”. Indro Montanelli ricorda una storia simile su Giuseppe Di Vittorio, che da ragazzo faceva il cacciacorvi dai campi di grano, e intanto provava a studiare. “Un giorno che, sotto un albero, il ragazzo strologava sulla tavola pitagorica, sopraggiunsero alcuni pastori. Insospettiti da quei segni che non capivano, gli chiesero cosa stesse facendo. Peppino tentò di spiegarglielo, ma quelli non ci credettero. Secondo loro, quel ragazzo sapeva trarre le cabale del lotto e voleva tenersele per sé. Minacciandolo col bastone, gl’imposero di farne parte anche loro. Peppino, per sottrarsi alla crocchiatura, diede a caso due numeri. Ma si considerò spacciato quando di lì a pochi giorni si vide ripiombare addosso gli energumeni, che certamente rivolevano i soldi persi per causa sua”. Invece l’ambo era uscito, ma ora volevano un terno. Il futuro segretario della Cgil diede tre altri numeri a caso, e “poi prese il largo in cerca di un altro lavoro”.
Giusto cent’anni dopo “Il ventre di Napoli”, un altro Assistito appare in “Così parlò Bellavista”, film tratto dal libro di Luciano De Crescenzo di sette anni prima. Davanti ha una vecchietta che vuole far interpretare il sogno di una sorella ormai quasi sorda. “Voi dovete avere pazienza! Il sogno non è mio!”. “Non è vostro?”. “No è di mia sorella! Io gioco sempre ma non sogno mai, e allora quando voglio giocare vado da mia sorella la sera e le dico: ‘Carmilì fatti un bel sogno e cosi io gioco domani 5 mila lire’”. “D’accordo signò ma bisogna essere precisi! Ce stann nu cuofano ‘e carabinieri! Ci stanno i carabinieri in Africa che fanno 57...i carabinieri arrestati… i carabinieri con la tromba… sunavano a tromba sti carabinieri?”. ” Carmilì tenevano la tromba?”. ” Eh?”. “La tromba?”. “Nooo non erano trombettieri!”. “Stavano in alta uniforme? come erano vestiti questi carabinieri?”. “Carmilì come erano vestiti questi carabinieri?”. “Tenevano il pernacchio?”. “Eh?”. “Il pernacchio rosso e blu?”. “Nooo tenevano le penne!”. “‘E penne? Allora erano Bersaglieri non erano carabinieri! E quelli fanno 85”. “Carmilì… Carmilì!”. “Ma tu che vuoi da me?”. “Eh ma allora questi erano veramente Bersaglieri?”. “Si! Erano Bersaglieri a cavallo!”. “Nun esistono ‘e Bersaglieri a cavallo!”. “E quello per questo è un sogno!”. “Eh!”. “Ma jate venne!”.
La “lottery” di cui parla George Orwell in “1984” come il racconto di Jorge Luis Borges “La lotería en Babilonia”, come il francese “loto” e il tedesco “lotto”, ci attestano una chiara origine italiana. Winston Smith ad un certo punto si imbatte in un gruppo di prolet che litigano furiosamente sui numeri che dovrebbero uscire. “La Lotteria, con le enormi cifre che corrispondeva settimanalmente, era il solo avvenimento pubblico per il quale i prolet nutrissero un serio interesse. In tutta probabilità, vi erano milioni di prolet per i quali la Lotteria costituiva la principale, se non unica, ragione di vita. Per loro era una delizia, una felice follia, un conforto, uno stimolante. Quando era in ballo la Lotteria, anche persone che sapevano a malapena leggere e scrivere dimostravano di riuscire a fare calcoli complicatissimi e di possedere una memoria stupefacente. Vi era poi tutta una cricca di persone che si guadagnava da vivere vendendo amuleti, sistemi per vincere e pronostici. Winston non aveva nulla a che fare con l’organizzazione della Lotteria, che era gestita dal Ministero dell’Abbondanza, ma sapeva, come del resto sapevano tutti i membri del Partito, che i premi erano per la gran parte immaginari. A essere pagate veramente erano soltanto somme esigue, mentre i grossi premi erano attribuiti a persone inesistenti; un trucco che, in assenza di comunicazioni autentiche fra una parte e l’altra dell’Oceania, non era difficile da mettere in atto”.
La “Lotteria di Babilonia” si è invece evoluta fino a diventare obbligatoria per tutti, e ai premi per i fortunati si affiancano per chi non lo è multe, giorni di prigione da scontare, mutilazioni o perfino la morte. “Come tutti gli uomini di Babilonia, sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l’onnipotenza, l’obbrobrio, le carceri”, racconta il narratore. “Guardino: la mia mano destra è monca dell’indice. Guardino: per questo strappo del mantello si vede sulla mia carne un tatuaggio vermiglio: è il secondo simbolo, Beth. Le notti di luna piena, questa lettera mi conferisce potere sugli uomini il cui marchio è Ghimel, ma mi subordina a quelli di Aleph, che nelle notti senza luna debbono obbedienza a quelli di Ghimel. Sul crepuscolo del mattino, in un sotterraneo, ho sgozzato tori sacri dinanzi alla pietra nera. Per tutto un anno della luna, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondevano, rubavo il pane e non mi decapitavano”.
Strumento del potere o suo sostituto: Blaise Pascal trasformò la scommessa in un argomento teologico, spiegando che se si ha fede se Dio esiste si guadagna la vita eterna, e se noi non si perde comunque niente. Ma il bello è che effettivamente le lotterie derivano, in qualche modo, dalla politica. Erano le democrazie antiche che si basavano sull’assemblea popolare per il potere legislativo e sul sorteggio per le cariche esecutive, nell’idea che l’elezione fosse piuttosto un elemento aristocratico. E forme di sorteggio per le cariche rimasero a lungo nelle repubbliche italiane. Si ha notizia che a Milano già nel 1448 esistevano “borse di ventura” per organizzare lotterie, ed è a Firenze nel 1528 che nasce il primo banco del Lotto. Ma è a Genova che, quando l’ammiraglio Andrea Doria convince le autorità cittadine a introdurre la nomina a rotazione semestrale di cinque membri dei Serenissimi Collegi da scegliersi con sorteggio fra 120 esponenti della nobiltà cittadina, nasce il Gioco del Seminario: per scommettere su nomi da uscire da un bussolotto, con metà dei soldi raccolti dalle poste divise tra gli scommettitori che hanno indovinato i cinque nomi e l’altra metà agli organizzatori. Poco tempo dopo i nomi divennero novanta, e dopo ancora il gioco sostituì ai nomi dei numeri. Nel 1588 la Repubblica lo vietò, ma nel 1620 lo riconobbe con una precisa regolamentazione.
Incertezze anche di altri stati, a partire da quello pontificio. Autorizzato con Alessandro VII, poi soppresso, poi ripristinato da Clemente VII, poi riabolito da Innocenzo XII, causa di scomunica nel 1731 per Benedetto XIII, di nuovo autorizzato il 9 dicembre 1731 da Clemente XII, mentre un primo lotto sotto l’egida del governo nasce a Venezia il 5 aprile 1734. Tanto da allora il lotto è identificato come risorsa statale, che addirittura durante le rivoluzioni del 1848 lo sciopero del lotto diventa prodromo di barricate. Ma con l’Italia unita ridiventa strumento di finanziamento pubblico: nel 1863 le cinque ruote di Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Torino; dal 1866 anche quella di Venezia; dal 1871 Roma; dal 1874 Bari; dal 1939 Cagliari e Genova; dal 4 maggio 2005 la 11ª ruota nazionale. Anche le estrazioni, un tempo limitate a due o tre all’anno, si fanno più frequenti: quindicinali nel 1807, settimanali nel 1871, bisettimanali nel 1997, trisettimanali nel 2005.
A quanto spiega Gimondi, l’idea di emulare il miliardario fai da te era venuta dalla constatazione che non se ne era accorto nessuno, e dal sogno di tanti meridionali emigrati di poter tornare al paesello natio ostentando successo. Il primo elemento del magheggio è in l’uso di Sidol per lucidare i numeri da pescare nell’urna; il secondo la selezione per le estrazioni di figli e nipoti dei membri della banda, istruiti a dovere; il terzo un bendaggio non accurato. In modo da far intravedere il luccichio.
Anche di questa operazione avrebbe potuto non accorgersi nessuno, se fosse stata gestita in modo professionale. Ma, appunto, non resisteva alla tentazione di dare i numeri Totò dall’adilà: figuriamoci la combriccola alla film di Monicelli! Prima ancora della polizia se n’è accorta la Sacra corona unita, rendendo il gioco pericoloso. Il bilancio finale è così sintetizzato da Gimondi: “Circa 90 condanne nel primo processo, un’altra ventina in una seconda tranche. Un maresciallo della Guardia di Finanza indagato per concussione, avendo preteso i numeri vincenti da quelli che avrebbe dovuto ammanettare. Un’altra inchiesta con 57 imputati e 23 miliardi di vincite farlocche a Vallo della Lucania, dove uno della banda di Cinisello aveva i parenti. Complessivamente le forze dell’ordine hanno recuperato circa 200 miliardi dell’epoca, una cifra enorme che rivalutata corrisponde a almeno 200 milioni di euro”. Il giornalista spiega pure come è “inciampato in questa storia”. Gliel’ha raccontata, chiedendo solo di cambiare i dati intimi, una persona “che ho conosciuto per caso: il padre di una compagna di scuola di mio figlio. Aveva fatto parte della banda ed era stato condannato”.
Ma “ancora oggi, senza un lavoro ben definito, ha un tenore di vita molto alto”. Secondo Gimondi, “ancora oggi i condannati si considerano persone perbene. Hanno affrontato drammatiche liti col parenti, infuriati non perché il nome era stato infangato, ma perché non avevano dato anche a loro i numeri. Per questo, a chi li giudica rispondono: ‘Dimmi la verità: se all’epoca ti avessi dato i numeri, non te li saresti giocati?’”.