Di gogna in gogna
Il suicidio della ristoratrice e due domandine sull'assunzione di responsabilità collettiva
Giovanna Pedretti è stata trovata morta dopo essere stata criticata per una recensione falsa. Una vicenda che prende forma nella nebulosa dello sputtanamento social. Il giustiziere-influencer ha poco a che fare con la verità, molto con l’amore per i like
Quindi, fatemi capire. In quanto maschio, bianco, eccetera, io dovrei sempre sentirmi colpevole per tutti gli stupri, femminicidi, prevaricazioni maschili del mondo, come da mesi mi spiegano fior di intellettuali dolenti (anzi, se mi scrollo di dosso la colpa sono un po’ complice). Ma se invece si evoca un qualche vago o vaghissimo rapporto di causa-effetto tra l’accanimento di giornalisti, giustizieri-influencer, hater vari coinvolti in questa disgraziata vicenda e il suo tragico epilogo, col suicidio della ristoratrice del Lodigiano, allora questi si incazzano, respingono le accuse, si indignano: ma come vi permettete? Ma che ne sapete? Per carità, capisco la legittima difesa. Sia detto senza troppa ironia. E si sa che di fronte al suicidio, ogni suicidio, dovrebbe sempre calare il silenzio.
Rispondere a una gogna con un’altra gogna, uguale e contraria, non è esattamente il presupposto teorico della giustizia. Però, ecco, rivediamola magari questa cosa dell’assunzione di responsabilità collettiva che ci è sfuggita di mano. Tra l’altro le tipologie di persone e professioni qui chiamate in causa mi sembrano comunque più precise rispetto alla vaghezza del maschio e del patriarcato. E allora, senza nulla togliere al “garantismo etico”, due domandine di contesto generale possiamo anche farcele. Perché non è il primo suicidio che prende forma nella nebulosa di una gogna social, e non sarà certo l’ultimo. In un mondo come quello dei social in cui niente è vero, un mondo fondato sulla compravendita di follower, plagi, fake-news, troll russi che ci mettono like, recensioni finte, facce finte, nomi finti, “amici” che non vedremo mai, l’idea di un paladino della verità dovrebbe farci ridere a priori. “Io sono giornalista e social debunker”, mi ha detto una volta un tizio rispondendo alla domanda, “di che cosa ti occupi?”, riuscendo nell’impresa non scontata di non mettersi a ridere dopo averlo detto, ma sentendosi anzi una specie di cacciatore di nazisti in Sudamerica. Beato lui.
Il giustiziere-influencer cerca di smascherare i cattivi, e non può che farlo parlando il linguaggio del falso, della manipolazione, della ricreazione di realtà parallele. E’ uno che vive di “screenshot”. Sperando che lo screenshot finisca in tv, a “Le Iene” o al tg delle 20 (e qui ci sarebbe tutta una “corposa riflessione” sul peso e l’importanza che i media tradizionali danno a questi avventurieri dei social).
Il giustiziere-influencer ha poco a che fare con la ricerca della verità, parecchio con la gogna, tantissimo con l’amore per la notorietà e il mercato dei like.
Lasciando qui da parte il suicidio, le cui ragioni non sapremo mai, casi del genere dovrebbero ricordarci il peso che lo sputtanamento social ha assunto nelle nostre vite. Le tragiche conseguenze del mondo falso su quello vero o quel che ne resta. Vivere la fatidica “tempesta di cacca”, com’è capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, è in effetti terribile (più o meno durante la campagna per il referendum, sono stato retwittato da Renzi e la quantità di insulti che ho ricevuto mi ha depresso, non so proprio come facciano quelli che “lo faccio per lavoro”). Però oltre la “tempesta di cacca”, la cosa deprimente e spaventosa di questa storia è la quantità di persone che dopo la notizia del suicidio hanno sottolineato la “gravità” di una recensione probabilmente falsa. Una cosa che mi ha ipnotizzato. Rileggevo più volte, lasciandoli risuonare nella testa, questi commenti sulla “gravità di una recensione probabilmente falsa”. La “gravità”. Ecco, avremmo bisogno del debunking di stronzate galattiche come questa.
E se “Black Mirror” non funziona più (siamo arrivati alla sesta stagione, sempre più stanca e intorcigliata), è perché quando ti dai come obiettivo il racconto delle conseguenze più assurde e inquietanti della tecnologia sulla nostre vite e la realtà, è facile che la realtà ti superi e ti lasci indietro.