L'olivo sarà il simbolo del G7 italiano, ma da noi questa nobile pianta se la passa male
L’olivicoltura è andata bene per qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale, poi si è assistito a una lenta decadenza, finora inarrestabile. Stiamo facendo morire un territorio perché la difesa a oltranza ci costringe a vedute ristrette e mortifica la creatività
Dunque, l’Italia per la presidenza italiana del G7 ha scelto il suo logo: un simbolo di pace, di storia e di tradizione che esprime la forza e il raccordo tra tutti i territori del nostro paese. Bene, cioè? Cioè l’olivo. Perfetto. La simbologia è dalla nostra parte perché è estesa a tutto il Mediterraneo. Non c’è un momento della storia di questo mare che non si intrecci con l’olivo. Citazioni ovunque. Per il popolo ebraico fu Dio a donare al figlio di Adamo, prossimo alla morte, tre semi, il figlio li pose tra le labbra del padre e, una volta sepolto Adamo sul monte Tabor, dai semi germogliarono tre piante, cedro, cipresso e olivo – per non parlare del cristianesimo così pieno di olivi: Gesù passò la sua ultima notte nell’orto di Getsemani sotto la chioma di piante di olivo. Per i miti dell’Ellade, l’olivo è dono di Atena, nell’Odissea l’olivo è dappertutto – Ulisse acceca il ciclope con un tronco di olivo, si riconcilia con Penelope sul letto costruito da Ulisse stesso su un tronco di olivo, ecc. ecc. Quindi, la storia del Mediterraneo è anche la storia dell’olivo e l’Italia fa parte del Mediterraneo e difatti anche la nostra storia si intreccia con questa pianta: c’era l’olio del legionario che insieme al vino e al grano era il rancio del miles romanus. L’olivo ha resistito al lardo, accade nel V secolo, vuoi le guerre, vuoi le carestie, nessuno coltivò più l’olivo, si preferiva il lardo dei maiali che pascevano sotto le querce, mangiando ghiande. Meno male che i monaci hanno salvato l’olivo. Difatti, per motivi religiosi, bisognava pure accendere i lumini per le cerimonie – e ne piantarono eccome di olivi, tutta la zona del Salento deve la coltivazione ai monaci.
Quindi sotto l’aspetto simbolico l’olivo è perfetto, viva l’olivo, viva la Presidenza del G7. Ma i simboli sono importanti se ispirano cose pratiche, altrimenti diventano materia per i cultori della simbologia – che storicamente, quei cultori, hanno venature esoteriche non sempre convincenti.
A proposito di praticità, come sta messa la nostra olivicoltura? Da questo punto di vista, i numeri che, come si sa, sono bastardi, ci dicono che la nostra olivicoltura sta messa veramente male. Perché siamo adagiati sul passato, sulla storia e sui simboli vetusti. Diciamo che l’olivicoltura è andata bene per qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale, poi si è assistito a una lenta decadenza, finora inarrestabile: alto tasso di abbandono degli oliveti. Per non parlare del fallimento sul piano economico perché in Italia si grida all’innovazione sempre e comunque, tranne nel settore agricolo, un vero paradosso: tutti vogliono il dentista moderno, ma amano il pane e l’olio dei nonni (quest’ultimo imbevibile, visto che era olio lampante). Ragione per cui si è sviluppato un rifiuto ostinato della modernità, tanto è vero che sui sesti di impianti dell’oliveto in Italia si fa la guerra, altro che simbolo di pace. Nella sostanza, si preferisce difendere una olivicoltura vetusta ritenuta inviolabile ma non sperimentare e testare una olivicoltura moderna e razionale, cioè, con oliveti ad alta densità (da valutare caso per caso) e pertanto più efficienti ed economicamente sostenibili. Gli attuali costi di produzione sono elevati, superiori a 5,7 euro per kg d’olio, con produzioni peraltro alquanto esigue, inferiori a 0,6 tonnellate per ettaro, quindi gli olivicoltori non ci guadagnano. Infatti, meno del 5 per cento delle aziende è professionale, il resto è hobby. Quindi il tanto amato Made in Italy diventa il Death in Italy – basta vedere come la superstizione, le pseudoscienze e le band musicali hanno ridotto gli olivi colpiti da Xylella: alcune zone del Salento assomigliano alla savana, quella del Serengeti. Facciamo morire un territorio perché la difesa a oltranza (a dir la verità difesa cominciata dalla sinistra, svariati decenni fa) ci costringe a vedute ristrette, mortifica la creatività, per non parlare dei paradossi: tanti vini italianissimi sono ottenuti da vitigni internazionali, Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon. Però c’è l’ostilità verso le varietà di olivo per lo più spagnole, di cui abbiamo invece la certezza dei buoni esiti in campo, con l’alta densità. Quindi, va bene l’aspetto simbolico dell’olivo, se invece dovessimo trovare un logo per raccontare l’agricoltura italiana reale allora dovremmo ricorrere al simbolo di uno psicologo, è necessario per accettare la realtà, eliminare la rimozione: qua continuiamo a parlare di potenzialità, di futuro, di valori della terra ma si ignorano le sofferenze della terra stessa.