(foto Ansa)

Un caso di ordinaria malagiustizia

L'imbroglio delle voci. Quando le intercettazioni vengono travisate

Alessandro Barbano

La storia di una sindaca calabrese che, tradita da un punto interrogativo ignorato e accusata di connivenza con la ’ndrangheta, ha passato un calvario giudiziario e umano lungo otto anni

Ci sono luoghi della giustizia italiana dove la cronaca sovverte la storia. Isola Capo Rizzuto nasce nel 900 d.C. come “Asylon”, terra dove nessuno sarà perseguitato. È un promontorio proteso sullo Jonio, su cui degrada in trentasette chilometri di scogliere e spiagge di sabbia finissima color giallo oro. L’indulgenza dell’imperatore Leone VI lo concesse come riparo a una pattuglia di detenuti politici. Undici secoli dopo sarà per Carolina Girasole il teatro di una persecuzione lunga otto anni. Che inizia, com’è costume italiano, con il suono ininterrotto del campanello alle tre e quindici di un giorno qualunque, seguito dai colpi sulla porta e dall’ingiunzione perentoria di aprire. “Lì per lì ho pensato che fossero venuti a farmi la pelle”, racconta l’ex sindaca, all’epoca cinquantenne e madre di due ragazze di diciannove e quattordici anni, che non dimenticheranno mai più quella notte del 3 dicembre 2013. Ormai tanti anni fa, ma non sufficienti a dichiarare finita la storia che qui si racconta.


“Ho detto a mio marito: non aprire e chiama la polizia”. Ma la polizia è là fuori. Polizia giudiziaria con la divisa delle fiamme gialle e due ordini di arresti domiciliari tra le mani: corruzione elettorale con la ’ndrangheta, milletrecentocinquanta voti in cambio di favori alla cosca sui terreni confiscati. L’ordinanza del gip è dettagliata. L’ex sindaca e il coniuge, che fa il commerciante di materiale edile, hanno chiesto personalmente, e più volte, ai figli di un capo clan un sostegno elettorale nelle Comunali, conferendogli lo specifico mandato di reperire i voti per la lista “Girasole sindaco”. Quei voti li hanno ottenuti grazie alle intimidazioni mafiose, come provano alcune intercettazioni tra i boss. In cambio la sindaca gli ha consentito di mantenere il possesso dei fondi agricoli confiscati dal tribunale, ha impedito che la loro coltivazione di finocchi fosse distrutta, di più ha truccato un bando di gara assegnando il raccolto a una ditta dietro la quale si celavano le mani dello stesso clan. Un favore da un milione di euro, niente male!


Di primo acchito pensi che si tratti di un errore, che il magistrato che ha chiesto il tuo arresto, guardandoti in faccia, si ricrederà. Non sei una qualunque. Sei stata per cinque anni uno dei sindaci antimafia più esposti nel Mezzogiorno, hai sfidato le cosche, hai subito attentati, godi della stima di don Luigi Ciotti, a tuo modo sei una bandiera. E mentre lo pensi la tua casa si è trasformata in una cella. Non puoi mettere il naso fuori dall’uscio. Non puoi vedere né parlare con nessuno, compresi i tuoi genitori e i tuoi fratelli. Perfino al vescovo sarà vietato di venirti a trovare. Potrai però mandare tua figlia quattordicenne, Sara, a fare la spesa per tutta la famiglia, in compagnia dello zio che l’aspetta sotto casa e la riaccompagna fino al portone. Potrai aprire la porta al medico, previa autorizzazione del giudice, quando la tua pressione arteriosa sarà andata fuori giri. Accade quasi sempre in questi casi. E potrai ricevere i tuoi avvocati. La loro visita è una boccata d’ossigeno quando ormai credi di soffocare. Chi pensa che i domiciliari siano una misura sostenibile, perché scongiurano la tortura del carcere, non può avere idea di quale inferno si scateni nella mente di una donna e di un uomo costretti a vivere per mesi nella propria prigione domestica.Comunque non può che trattarsi di un errore. O di una vendetta. Dalle intercettazioni si capirà. A te devono consegnarle tutte, perché sei agli arresti. Lo dice la legge. Nei quindici giorni in cui resti in attesa del dischetto, contenente le frasi dei boss che ti accusano, ripercorri i tuoi cinque anni da sindaco antimafia e li vedi davanti a te come una montagna più grande delle tue possibilità di scalarla, un azzardo in cui ti sei gettata con incoscienza e che ora sembra soverchiarti. A cominciare dall’idea di prendere possesso dei terreni confiscati ai malavitosi dallo Stato solo a parole, ma nei fatti rimasti nelle loro mani. 

Trentacinque ettari di fondo agricolo tolti agli Arena, una cosca che da queste parti detta legge fin dagli anni Settanta. Il suo ultimo padrino, l’ottantenne Nicola, è entrato e uscito dal carcere decine di volte. Quelle terre formalmente erano già del Comune. Il tribunale di prevenzione gliel’aveva consegnate con sentenza divenuta definitiva. Ma fai presto a dirlo. Perché i boss continuano a possederle e a coltivarle come loro. E dall’ottobre del 2009 si sono aggiunti altri settantacinque ettari, del padrino Nicola e della moglie, Tommasina Corda, e altri diciotto nel territorio di Cirò Marina. Tutti confiscati e tutti ancora nella disponibilità della ’ndrangheta. Per contratto. Perché prima della confisca il padre li ha ceduti in affitto a una società formata dai suoi figli, e questi hanno ottenuto dal tribunale il permesso di continuare a coltivarli in affitto, versando un canone allo stato. Si direbbe una stranezza delle misure di prevenzione. Il giudice delegato fa e disfa a suo piacimento. Se un qualunque amministratore pubblico riconsegnasse alla famiglia del boss i terreni che le ha appena confiscato, finirebbe certamente in galera. Il giudice no, lui può farlo senza che nessuno abbia di che ridire. Comunque gli Arena quei terreni li hanno difesi con i denti, e i figli li hanno messi a reddito con i finocchi. Uno scandalo durato tre anni a cui ora si cerca di porre riparo.


In prefettura li chiamano tavoli. Sono riunioni in cui si cerca di sciogliere nodi incancreniti e da cui talvolta si esce con l’idea di averli aggrovigliati ancora di più. Perché si fa presto a dire: diamo le terre della mafia ai giovani disoccupati del paese, in un paese dove tre giovani su dieci non studiano e non lavorano. Cento ettari sono tanti, anche se non quanti bastino a sedare la fame di lavoro di un’intera comunità. Cento ettari fanno gola. Prima di tutto alla Confraternita Misericordia, che gestisce il centro di accoglienza per gli immigrati. Il suo governatore, Leonardo Sacco, e il parroco che lo spalleggia, don Edoardo Scordio, si fanno avanti, ma la sindaca non ci sta. Pensa che la loro presenza sul territorio sia diventata ingombrante. Sono partiti da un’associazione di volontariato, e da lì si sono allargati alla sanità con la gestione delle ambulanze, poi agli scuolabus, fino al campo profughi. Facendo incetta di appalti, hanno costruito in pochi anni un centro di potere privato che, utilizzando risorse pubbliche, intermedia tutti i processi produttivi del territorio. Gli mancava l’agricoltura. Se gli affido anche i finocchi degli Arena, pensa Carolina Girasole, il loro monopolio sarà assoluto. D’altra parte la sindaca non è donna di mezze misure. Incarna piuttosto quella tipologia di amministratori cresciuti nel primo decennio del secolo con la convinzione di avere una missione moralizzatrice. Per questo ha lasciato il suo laboratorio privato di biologa per gettarsi nella politica, alla guida di una lista civica sostenuta da Pd, verdi e comunisti. Dopo due lunghi commissariamenti per infiltrazione mafiosa e per una crisi nella maggioranza di centrodestra, a Isola Capo Rizzuto c’era voglia di respirare aria fresca. La politica screditata dalle inchieste giudiziarie ha aperto le porte alla società civile e lei si è lasciata tentare. Ma giunta a Palazzo, capisce presto quanto dura sia la vita di chi vuole cambiare le regole del gioco, dentro e fuori il Municipio. Alle prime lettere anonime con minacce, seguono atti vandalici e poi vanno a fuoco in rapida successione l’auto di servizio dell’ufficio urbanistico, quella del vicesindaco e una terza della sindaca stessa. Eppure la tutela speciale, disposta dalla prefettura, non la scoraggia dallo sfidare quello che a lei sembra un sistema. Organizza una raccolta d’orzo sui terreni solo virtualmente confiscati ai boss, contrasta la società titolare del parco eolico da lei ritenuto un’operazione speculativa, riorganizza la macchina comunale, emarginando non pochi quadri e dirigenti e sostituendoli con altri di sua fiducia, per contrastare una gestione clientelare.


Di fronte al pericolo c’è chi rinuncia al progetto verso cui sono dirette le minacce, e c’è chi reagisce alla paura esponendosi in prima persona. Carolina Girasole sceglie la seconda strada, se di scelta si può parlare. La sua esposizione è un rifugio dietro a un’identità politica percepita come forte. Così l’immagine di militante antimafia diventa uno scudo. E’ in quest’impegno che conosce Don Luigi Ciotti, carismatico capo di Libera, il network che coordina più di milleseicento associazioni e cooperative impegnate in vario modo nella gestione dei beni confiscati. A lui chiede aiuto per risolvere l’intrico dei terreni di Isola Capo Rizzuto. L’idea condivisa con il presbitero e attivista bellunese è di affidare a Libera la gestione di una cooperativa in grado di occupare i giovani del paese nella coltivazione delle terre sottratte ai boss. Quando la sindaca la racconta in Consiglio comunale, non pochi nasi si storcono anche tra esponenti della sua maggioranza. Per Carolina Girasole quella scelta è il segno di una rottura con il passato. Finalmente si offre a tanti giovani di partecipare a un bando pubblico in nome della legalità. Ma non tutti a palazzo la pensano come lei, e l’opposizione in paese non è meno esplicita. Don Edoardo Scordio, il parroco della Misericordia, tuona in un’omelia contro la scelta di don Ciotti. “Il piemontese invasore viene a rubare il lavoro ai calabresi”, lo arringa dal pulpito tra gli applausi dei fedeli. La sindaca non si perde d’animo, anzi accelera e spinge dalla sua il tavolo tecnico che la prefettura ha istituito sul caso. E finalmente nasce, sotto l’egida di Libera, l’associazione temporanea di scopo che dovrà gestire i terreni da affidare alla futura cooperativa di giovani del paese.


Ma i problemi non finiscono qui. Perché Libera si rifiuta di prendere in consegna i terreni con all’interno i finocchi ancora da raccogliere. I finocchi sono l’ultimo, cospicuo investimento della cosca. Valgono tanti soldi. Ma soprattutto sono stati coltivati sulla base di un contratto di affitto con i figli del boss. Che ogni mese corrispondono il canone allo Stato. E lo Stato puntualmente riscuote. Il rischio che gli Arena possano chiedere i danni a chi subentri nei terreni fa paura almeno quanto quello di una loro reazione violenta all’esproprio. L’associazione temporanea di scopo nicchia, poi si ritira. Prima sgomberate tutto – dice – poi entriamo noi. È a questo punto che si fa strada l’idea originale di distruggere l’intera coltivazione di finocchi. In gergo si chiama “frangizollatura”, e il termine, ripetuto centinaia di volte nelle carte del processo, pare la metafora dell’assurdo che si è impossessata delle coscienze. Perché la mano della legalità, che restituisce alla società un bene, frutto di un illecito e impropriamente detenuto da una cosca, dovrebbe distruggerlo, anziché redistribuirlo alla società a cui è stato illegittimamente sottratto? E’ una domanda senza risposta nelle migliaia di carte del processo. Chiederselo vorrebbe dire mettere sotto accusa l’intera macchina dell’antimafia. Perché questa domanda ne contiene un’altra: perché il tribunale di prevenzione, l’agenzia nazionale dei beni confiscati, la prefettura, il Comune hanno consentito per anni ai boss di restare sulle terre confiscate? La coda di paglia suggerisce di azzerare il passato con una trovata burocratica convincente per i giudici, per i prefetti e per gli amministratori, ma inspiegabile per i cittadini. Non a caso la chiamano frangizollatura, con un nome che somiglia a un rebus. E come una freccia dall’alto scocca, direbbe il grande Fabrizio De André, la notizia vola veloce di bocca in bocca nel paese, scatenando un putiferio. Il primo a raccontarla è un blog anonimo che ha preso di mira la giunta di Carolina Girasole: la gente qui muore di fame, scrive, e loro distruggono i finocchi. Dietro questa campagna politica, accerterà il processo, c’è la manina di qualcuno vicino agli Arena. Che proprio non vogliono saperne di rinunciare ai terreni. E tramano dietro le quinte.Nel clima di veleni che si spande nella piccola comunità calabrese, si consuma un altro giallo. La mattina stabilita per il via alla frangizollatura, con i trattori della legalità già pronti ad accendere i motori, arriva il fax della prefettura di Crotone che annuncia lo stop alle operazioni. Il motivo di questa decisione è un mistero del processo. In realtà nessuno dei trattoristi del paese ci sta a distruggere i finocchi. Hanno paura. O piuttosto non vogliono prestarsi a un’operazione che non condividono.

Era già accaduto anni prima con l’orzo. A salire sulla trebbiatrice erano stati uomini del corpo forestale, giunti in aereo da Pescara e scortati sul campo. Stavolta si sospende e si rinvia. La nostra sindaca non se dispiacersi o rallegrarsi. Perché sa che la distruzione dei finocchi avrebbe dato il colpo di grazia al suo già fragile capitale politico. Il blog anonimo continua a spararle contro palle incatenate, facendo uso di un’arma di distruzione di massa che nel Mezzogiorno funziona sempre: la familiarità mafiosa. Chi tra gli abitanti di un comune non ha un padre, un fratello, uno zio, un nonno, un cugino di secondo grado con un presente o un passato di mafia? Il cognato di Carolina, in quanto marito della sorella di suo marito, è il nipote del boss e porta il loro cognome. Altri due Arena lavorano in municipio, uno al personale e uno ai servizi. La sindaca li ha trasferiti ed emarginati, ritenendoli i riferimenti di un sistema familista che governa il paese. L’effetto raggiunto è stato quello di mettersi contro gli Arena, ma non di sottrarsi al venticello della calunnia che ormai spira come una gelida brezza. Tutto cospira contro il cambiamento. Ma Carolina Girasole è intenzionata a portare fino in fondo la sua sfida, costi quel che costi. E nell’ultimo consiglio comunale utile, prima della scadenza della legislatura, presenta la delibera che affida i terreni alla nuova cooperativa di giovani, intitolata Terre Joniche, e nata sotto l’ombrello di don Ciotti. Nel fortino dei boss nascerà una nuova azienda agricola e una scuola di legalità. Sa che quel colpo di reni non servirà a salvarle la poltrona. La maggioranza si sta sfaldando, perché il Pd si è spaccato in due tronconi. Però non ci sta a inchinarsi a quella che considera ormai una sacra alleanza contro il cambiamento. Dietro la quale vede la ’ndrangheta, ma anche i rivali della Misericordia, il blog anonimo, i comunali a cui ha rotto le uova nel paniere, e i tanti altri che diffidano di lei. Chiama a raccolta le residue forze della coalizione e approva la delibera. Due mesi dopo si consegna agli elettori con quel che resta di una maggioranza divisa e un paio di assessori che le sono rimasti fedeli. Il suo rivale, Gianluca Bruno, si è alleato con il parroco e il governatore della Misericordia e ha messo insieme quattro liste civiche. Non c’è partita. Anche perché il Pd si è sbriciolato tra i conflitti intestini, il centrodestra invece è andato compatto contro di lei. Il giorno dopo la sconfitta un incendio doloso distrugge le case marine della famiglia del marito. Carolina Girasole inizia a comprendere che il suo fallimento politico avrà una scia di veleni e vendette destinate a durare. Per questo la notte tra il due e il tre dicembre, quando i finanzieri bussano alla sua porta, è convinta che vogliano farle la pelle.


Ora che ha letto le accuse del magistrato, ha provato un moto di rabbia e insieme di speranza. Rabbia perché ha intuito di essere caduta in trappola. Speranza perché il pm non potrà che capire l’errore quando la interrogherà. È ancora convinta che la sua storia personale dica più della sua verità. Dovrà ricredersi. Perché il magistrato che ha chiesto e ottenuto il suo arresto, Salvatore Curcio, non ha alcuna intenzione di incontrarla. L’interrogatorio avrà luogo a Crotone, ma con una toga delegata dal gip distrettuale, che non ha seguito le indagini e che si limiterà ad ascoltare la disperata difesa della sindaca e a trasmettere i verbali. Carolina parla per due ore, professa la sua innocenza, rivendica tutti gli atti compiuti da sindaco antimafia contro la cosca degli Arena. “Se i boss mi accusano – dice – è per farmela pagare, vuol dire che sanno di essere intercettati”. Non ha ancora ricevuto il dischetto con le intercettazioni che la riguardano. Quando le ascolterà, insieme con il suo avvocato Marcello Bombardiere, avrà un mancamento. Perché la trascrizione della polizia giudiziaria non corrisponde a ciò che gli Arena si dicono, parlando nei colloqui registrati. Non si tratta di virgole, ma di un radicale travisamento del contenuto dei colloqui, che toccano il cuore delle accuse rivoltele dal magistrato. La prima: che lei abbia chiesto e ottenuto mille voti dalla cosca. Si fonda su una conversazione tra Carmine e Massimo Arena, rispettivamente fratello e figlio del boss, captata mentre sono a bordo di un Doblò. I due Arena commentano un’intervista di Carolina Girasole alla Rai, nella quale la sindaca rivendica la sua battaglia contro il parco eolico e contro gli interessi della cosca Arena nel territorio. Lo zio la chiama “bastarda” e “puttana”, e il nipote gli fa eco: “Ma perché… noi non possiamo dirlo che gli abbiamo dato i voti”. Eccola la prova del sostegno degli Arena alla sindaca antimafia. E di quanti voti si tratta? Lo specifica ancora una volta Massimo Arena: “Mille voti”. Mille voti sono un pacchetto assai cospicuo in un Comune di quindicimila abitanti, dove a votare sono stati in 8.379. Certo, un’indagine seria dovrebbe chiedersi se un boss ottantaseienne e due figli che vivono ai margini possano raccogliere consensi di queste dimensioni e convogliarli verso il candidato prescelto. Ma, com’è costume dei tempi, la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro si contenta delle intercettazioni. Massimo Arena dice: “non possiamo dirlo che gli abbiamo dato i voti”, e questa negazione conferma l’aiuto della ’ndrangheta.


Senonché, l’errore, o piuttosto l’inganno, è nella sintassi della polizia giudiziaria. Dall’ascolto della registrazione, si percepisce chiaramente che il tono della frase è interrogativo: “Ma perché? Noi non possiamo dirlo che gli abbiamo dato i voti?”, dice Massimo allo zio, rivelando l’intenzione di inventare una falsa accusa contro la sindaca nemica. Un punto interrogativo mancante ha trasformato una calunnia in una prova. E che di calunnia si tratti, lo dimostra il seguito della conversazione. “Ma perché, è venuta che glieli hai dati?”, replica lo zio al nipote, aggiungendo: “Da me non è venuta”. Vuol dire che, in un clima di evidente millanteria, l’unica certezza che i due parenti del boss si comunicano è che Carolina non è andata a chiedere loro i voti. Ma non finisce qui. Perché il nipote continua: “Il marito… è venuto davanti al bar… mi raccomando… qua… là… proprio il marito”. Lasciando intendere che in campagna elettorale, davanti al bar del paese, il marito abbia esortato gli astanti a votare per Carolina. È un reato di mafia? Se si fosse trattato di quello che il codice definisce patto politico mafioso, certo non sarebbe avvenuto nel modo in cui il figlio del boss lo racconta. 


Lo zio tuttavia esorta il nipote ad andare a parlare con il marito di Carolina, perché la sindaca la smetta di attaccarli. “Prova a parlare, perché non vai… a chiamarlo il marito, no?”, gli chiede, “io andrei e glielo direi”. Ed è a questo punto che il nipote rivela la quantità del sostegno che la cosca avrebbe fornito a Carolina: “Mille voti”. Né la polizia giudiziaria, né il magistrato si chiedono come mai, all’esortazione di andare a parlare con il marito, il figlio del boss risponda: “Mille voti”. C’è qualcosa che non torna. Dall’ascolto della conversazione si scopre l’arcano. Perché la risposta di Massimo Arena non è “Mille voti”, ma “Ih, solo una volta?”. Sta dicendo allo zio che non una, ma più volte ha avvicinato il marito per chiedere che Carolina si fermi. E infatti lo zio ha compreso bene il concetto, perché ribatte: “Glielo hai detto?”. E il nipote chiarisce anche che cosa gli ha risposto il marito di Carolina: “Non è lei. Dice che ha la prefettura caricata addosso”. “Sì?”, chiede ancora lo zio. E il nipote chiude la conversazione sul tema: “E lui non può fare niente”. La cosca ha avvicinato il marito della sindaca e questi ha risposto che non può fare niente. Ecco l’intercettazione che prova l’innocenza di Carolina Girasole e che invece viene presentata come la prova regina della sua colpevolezza. Questo travisamento mostra quanto pericoloso sia in una democrazia liberale l’uso disinvolto delle intercettazioni. E la disinvoltura a Isola Capo Rizzuto sfiora i confini dell’assurdo. Perché i voti che la procura contesta alla sindaca nella richiesta di arresto, come regalo dei boss, sono milletrecentocinquanta. Se i mille sono frutto di un errata interpretazione fonetica, i trecentocinquanta che mancano sono un evidente caso di manipolazione. Riguardano un colloquio tra il secondo figlio del boss e un amico. Pasquale Arena gli confida di aver fornito quella provvista elettorale a un altro politico, candidato ed eletto nelle elezioni provinciali di Crotone. Dopo averlo etichettato come “mmerdoso” e “ricchijuneddu”, chiude la conversazione con questa esortazione: “Lasciamolo stare a questo, che questo è una femmina, questo è uno merda”. Definire femmina e omosessuale un uomo è, nella logica arcaica dei due amici, un insulto. Per la polizia giudiziaria è invece l’occasione per volgere l’intera frase al femminile, aggiungere la parola “sindaco”, riferirla a Carolina Girasole, e confezionare una prova spendibile.


Ma la prova regina è l’incontro che, secondo la procura, sarebbe avvenuto tra il sindaco e la cosca nei giorni in cui sta per scattare la fatidica frangizollatura dei terreni. Anche qui l’ascolto delle intercettazioni lascia Carolina Girasole di stucco. Perché in due diverse circostanze il suo nome compare nelle trascrizioni della polizia giudiziaria senza essere mai stato pronunciato da nessuno. Se accadesse una sola volta, potrebbe anche trattarsi di un errore. Ma non è così. In un caso “l’avvocato Girasole”, che è assessore e cugino di Carolina, ma soprattutto difensore degli Arena, diventa “il sindaco Girasole”. Nel secondo caso, non c’è neanche l’omonimia del cognome a giustificare lo scambio di persona. Accade quando il figlio del boss, Massimo, sta raccontando al padre che la frangizollatura dei terreni è stata fermata in extremis, per averlo appreso dal sindaco. In realtà dall’ascolto della registrazione la parola “sindaco” non viene mai pronunciata. Dal senso complessivo del discorso si comprende che è stato il viceprefetto vicario, incontrato sui terreni, a comunicargli lo stop delle ruspe. Si tratta di macroscopiche manipolazioni delle conversazioni captate, che il difensore della sindaca, Marcello Bombardiere, contesta alla procura fin dalla prima udienza davanti al tribunale del riesame. Ma non servirà a convincere il pubblico ministero a rettificare il suo impianto accusatorio, né a interrogare Carolina Girasole, che invano spera di poter dimostrare la sua buona fede prima che si arrivi a processo. Com’è ancora costume investigativo dei tempi, le prove, le uniche prove su cui si gioca la sorte dell’indagato, saranno quelle costruite a tavolino dalla polizia giudiziaria, assemblando intercettazioni e precedenti di polizia in una costruzione congetturale. Salvatore Curcio chiederà il giudizio immediato, saltando la fase innanzi al gup, perché è convinto della colpevolezza della sindaca. I sostituti Domenico Guarascio e Vincenzo Luberto in giudizio formuleranno la richiesta di sei anni di carcere per corruzione elettorale, turbativa d’asta e abuso d’ufficio, aggravati dalle modalità mafiose.
Prenderanno un sonoro schiaffone. Carolina Girasole e il marito saranno assolti in primo grado dopo due anni, e centosessantadue giorni trascorsi agli arresti domiciliari, perché il fatto non sussiste, con una motivazione che smonta l’intero castello di sospetti su cui poggia l’indagine. E prima di tutto demolisce il valore di prova di quelle intercettazioni. “Dai riscontri acquisiti – scrivono i giudici – è emersa l’assenza di qualsivoglia contatto tra la Girasole o il marito Pugliese e alcuno degli imputati, avente ad oggetto una trattativa di voti da scambiare contro altra utilità”.


L’ipotesi che la sindaca, in cambio dei voti promessi o ricevuti, avrebbe consentito la coltivazione dei finocchi sui terreni confiscati, dice ancora il tribunale nella sua motivazione, si è rivelata “del tutto infondata, in quanto campata su elementi, quelli offerti dalla pubblica accusa, e a prescindere da quelli contrari offerti dalla difesa, inconsistenti, se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria”. Come dire: zero spaccato. Quand’anche Carolina Girasole avesse rinunciato a difendersi, le prove portate per dimostrare la sua colpevolezza spiegano la sua innocenza. Dopo una smentita così radicale, una magistratura che avesse il senso del limite, se non almeno quello del ridicolo, dovrebbe battere in ritirata e riflettere sulla propria inadeguatezza investigativa e istruttoria. Non la procura di Catanzaro, che invece impugna la sentenza e ripresenta, due volte, prima in appello e poi in Cassazione, l’intero impianto di congetture franato in primo grado, rimpinguandolo con vecchie illazioni di polizia. Le cosiddette nuove prove sulla colpevolezza della sindaca riguardano addirittura un precedente di venti anni prima, che coinvolge il padre, Vincenzo Girasole. Nella sua concessionaria avrebbe lavorato per alcuni mesi un esponente della cosca Arena, in quel periodo in regime di sorveglianza speciale. Carolina ricorda quei difficili anni Ottanta e Novanta, i taglieggiamenti, le minacce e le bombe, ma soprattutto la vita blindata di una famiglia di imprenditori costretti a venire a patti con la criminalità, quando lei, adolescente, andava a scuola “accompagnata”. L’azienda del padre era fallita nel 1998, lui era morto nel 2009. Ora i ricatti subiti una generazione prima per mano della ’ndrangheta dovrebbero provare, nella surreale logica accusatoria della procura, la colpevolezza della sindaca. Ma in quale Stato di diritto si celebra un processo simile? Se lo chiede in dibattimento l’avvocato Marcello Bombardiere, che condurrà Carolina all’assoluzione in secondo e in terzo grado, lungo un calvario durato otto anni e conclusosi il 27 aprile del 2021. La censura della Corte d’appello alla procura non sarà meno netta. “Anche se fosse dimostrato che la cosca Arena abbia appoggiato elettoralmente la candidata Girasole, circostanza che l’accusa non è riuscita a provare, e anche se si fosse dimostrato che si sia pervenuti alla decisione di non frangizollare i terreni per favorire gli Arena, circostanza comunque da escludersi per le ragioni qui spiegate, quella che manca è proprio la prova dell’accordo collusivo nei termini ritenuti dalla Procura”. Non meno tenera è la Cassazione, che dichiara inammissibile il ricorso della Procura generale, poiché “tutte le puntuali censure proposte dalla parte pubblica sono state disattese”.


Resta da chiedersi perché una procura conduca in maniera così dilettantesca un’inchiesta che viola la libertà e la reputazione di persone innocenti e turba la vita amministrativa di una comunità. E perché insista pervicacemente su un teorema accusatorio demolito dalla sentenza di primo grado, trasformando un giudizio in un calvario lungo otto anni. La risposta a queste domande sta nell’irrilevanza degli esiti processuali rispetto alla carriera dei magistrati che li perseguono. Salvatore Curcio, che ha condotto le indagini, ha chiesto il giudizio immediato, ha impugnato la sentenza di primo grado, facendosi poi applicare in Corte di appello per seguire il secondo grado, e ha proposto ricorso in Cassazione della sentenza di appello, è stato promosso nel 2017 procuratore capo a Lametia Terme, dove tutt’ora esercita l’azione penale. E adesso concorre alla poltrona di procuratore capo di Catanzaro, rimasta vacante dopo la nomina di Nicola Gratteri a Napoli.Carolina Girasole al momento dell’arresto si è dimessa da consigliere al Comune, dove guidava, dopo la sconfitta elettorale, l’opposizione. Non ha ripreso il lavoro di biologa, poiché nel frattempo aveva ceduto il suo laboratorio. Ha speso decine di migliaia di euro in parcelle per gli avvocati e per i periti, questi ultimi necessari a provare la falsificazione delle intercettazioni. Si è candidata al consiglio regionale con il Partito democratico nel 2020, quando pendeva ancora il giudizio in Cassazione, e non è risultata eletta. Non si capacita ancora di come e perché sia stata assunta a bersaglio di quella che le pare, e non senza motivo, una persecuzione. La sua vita è stata irrimediabilmente sconvolta dall’uragano giudiziario che si è abbattuto sulla sua famiglia. E che sparge tra le generazioni una scia di dolore e di sfiducia. La sua figlia più grande, Federica, che lavora a Milano come consulente di una grande multinazionale, si irrita se la madre parla di politica, e le ha comunicato che non tornerebbe per nessun motivo a vivere in Calabria. Questo le pare il segno di un grande arretramento per il paese. 

Il dieci luglio scorso Carolina ha compiuto sessant’anni. Si dedica alla madre anziana e partecipa a qualche incontro politico nell’area della sinistra. Non ha smesso di chiedersi, tuttavia, se le persone che pure le manifestano stima e solidarietà credano fino in fondo a lei, perché sa bene che in questi casi la gente da più credito alla parola di un magistrato che a quella di un comune cittadino. Voi pensate che una simile Caporetto giudiziaria abbia aperto nella magistratura e nella società civile un dibattito franco sull’efficacia e sui prezzi dell’azione penale in Calabria? Le principali inchieste della procura di Catanzaro registrano un tasso di assoluzione variabile tra il 50 e il 70 per cento delle persone portate a giudizio. Molti di questi imputati sono stati arrestati di notte, mentre dormivano, come Carolina Girasole. E non hanno mai più preso sonno.