D'inchiesta sarà lei
Il dibattito farlocco sul giornalismo da dossieraggio
Qui non c’è in ballo nessuna libertà di stampa da difendere. Più che un vulnus al giornalismo d’inchiesta, quella cui assistiamo è la difesa di un metodo: quello di ottenere e accumulare informazioni ad sputtanandum
Ha ragione Piero Sansonetti quando scrive, sull’Unità, che è “una bruttissima storia questa dei dossier spionistico-giornalistici” di Perugia, “preparati per danneggiare, o sputtanare, o ricattare”. Brutta storia non per gli “sputtanandi” ma per il giornalismo, nonostante Carlo De Benedetti, in difesa dei giornalisti del suo giornale, dichiari: “Ancora una volta voglio però ribadire l’importanza di difendere il fondamentale diritto alla libertà di stampa inteso sia come diritto a informare ed essere informati”, quasi che i suoi cronisti (certuni) fossero vittime e non parte in causa. Un po’ meno ragione, Sansonetti, ce l’ha quando dice che “uno scandalo di queste proporzioni simile a quello della P2 del 1981, o addirittura allo scandalo Sifar del 1964”, esageroma nen, sarebbe tenuto “sottrotraccia per solidarietà coi colleghi”.
“Sia coi colleghi inquisiti che con quelli che temono di poter finire inquisiti”. Non è esatto, caro Sansonetti, la solidarietà è più che altro un metodo, il metodo di ottenere e accumulare informazioni ad sputtanandum. E ha meno ragione ancora quando dice che l’inchiesta “rompe il velo su cos’è il famoso giornalismo d’inchiesta”.
Perché, argomenta Sansonetti, il presunto giornalismo d’inchiesta di oggi, quello che si informa dai finanzieri, cioè, “non ha niente a che fare con quello di una trentina d’anni fa”. Allora sì, ricorda Sansonetti, che i giornalisti d’inchiesta contrastavano il potere. Siccome non siamo nella Washington di Woodward e Bernstein, e non siamo mai stati americani, neanche cronisti d’assalto, forse converrebbe ricordare che – reso il dovuto onore alle inchieste vere, e ce ne sono state, anche se qualcuna è passata direttamente dalla cronaca alla leggenda – “trent’anni fa” erano anche gli anni delle “inchieste” di Mani pulite imbeccate dai pm e dalle cartelle sbadatamente lasciate aperte sulle loro scrivanie. Erano gli anni delle intercettazioni propalate a mezzo stampa, delle cene eleganti scaricate dai telefonini, e di qualsiasi altra poltiglia di guerriglia politica passasse dai tavoli di redazione. Gli anni in cui però i giornalisti (di un certo gruppo perlopiù) gridavano “intercettateci tutti” manco fossero nella Russia di Putin. Poi, tra le coraggiose inchieste benemerite, vennero anche i Vatileaks del prode Fittipaldi costruite su corvi e maggiordomi, o i successi improbabili come le inchieste sulle terre dei fuochi o il geniale scartabellare file di nulla dei Panama Papers.
Il giornalismo d’inchiesta, che ha avuto e avrà sempre i suoi meriti (perché ne dubita Sansonetti?), e negli anni recenti citeremo, così a memoria, l’inchiesta “Veleno” di Pablo Trincia, che per una volta non si basava sui file delle procure. Più che un vulnus al giornalismo d’inchiesta, quella cui assistiamo è la difesa di un metodo. Trasparente nella lettera che CDB ha scritto per difendere i giornalisti della sua testata, che a ogni buon conto non sono perseguitati per aver diffuso gli arcana imperii, non c’è in ballo nessuna libertà di stampa da difendere, qui.