I “Monuments Men” italiani
L'archeomafia non resterà impunita. Storie di tesori persi e ritrovati
L'intelligenza artificiale permette il confronto rapido delle immagini. Nel 2023 sono stati recuperati dal web oltre 31 mila pezzi di grande valore
Non li trovate in un museo, ma nei corridoi della Procura nazionale antimafia. Vasi, busti, fregi: sono il frutto delle indagini sul traffico dei reperti archeologici. Saranno presto esposti al pubblico
Sul portone due agenti in divisa, schiacciati nella bussola perché diluvia e l’acqua rimbalza sul selciato di via Giulia. Il metal detector, “passi di qua”. Il primo che ti si fa incontro, riemerso da un’infinità di tempo direbbe il poeta, è un grande cratere con le figure rosse, scene di mitologia e vita quotidiana, di produzione attica, un vaso conviviale del quinto o sesto secolo avanti Cristo. La sua teca trasparente, che ha ancora qualcosa di provvisorio, apre una sfilata di reperti fratelli: crateri a colonnette o a calice o a campana, vasi funerari, prodotti nella Magna Grecia. Nel corridoio di un palazzo ben dotato di storia, l’effetto è quello di un museo ai suoi primi passi ma già opulento. Eppure gli uomini in divisa e i funzionari che vi si muovono non sono turisti.
A metà della grande scala nobile svetta una statua romana. Un altro corridoio, le porte di uffici come in un ministero o un palazzo di giustizia. A fare da sponde ecco altre teche, altri vasi del IV, del V secolo avanti Cristo. Il “Cratere a volute” apulo del 330-310 a. C., attribuito al pittore di Underwood. Sul cartiglio c’è uno stemma, ma non è il logo di un museo: “Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale”. Si legge: “Scavato clandestinamente in aree archeologiche dell’Italia meridionale, è stato individuato e recuperato presso un museo degli Stati Uniti d’America grazie a complesse indagini condotte dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, sotto la direzione della procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma”. Di fianco c’è un “Cratere a calice a vernice nera”, “Magna Grecia - IV sec. a. C.”. Ancora si legge: “Scavato clandestinamente in aree archeologiche dell’Italia meridionale, è stato individuato e recuperato presso un museo degli Stati Uniti d’America grazie a complesse indagini condotte dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale”. C’è poi un “Cratere a figure rosse del gruppo della Metopa”, “individuato e recuperato presso un museo degli Stati Uniti d’America”, e due scudi di bronzo che avevano riposato per due millenni in una tomba etrusca prima di essere rapiti chissà dove e infine ritrovati. Teste di statue, busti, fregi.
Alcuni reperti tornano nei musei di provenienza o ai legittimi proprietari, ma la maggior parte è in quarantena nei depositi delle sovrintendenze
Il lungo corridoio non è l’ingresso di un museo, conduce all’ufficio del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Quelle preziose opere del patrimonio archeologico italiano non sono state selezionate da curatori museali: sono una parte, un minimo esempio, del lavoro di indagine, di recupero e di tutela del patrimonio artistico e culturale svolto dai carabinieri. Dallo stato. Un lavoro paziente e implacabile, svolto assieme alle procure territoriali interessate e in collaborazione con le sovrintendenze, sotto il controllo del ministero della Cultura da cui dipende il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. I reperti archeologici illecitamente scavati, venduti e ritrovati tornano nei musei di provenienza o ai legittimi proprietari, ma la maggior parte, sono migliaia, vive una lunga quarantena nei depositi delle sovrintendenze. Sui cartigli il nome del museo straniero che li ha restituiti non c’è (a volte del resto, soprattutto in passato, si è trattato di “acquisti incauti”), un accordo fair extragiudiziale per la restituzione ha concesso di ometterlo.
Giovanni Melillo, magistrato che nella sua lunga esperienza a Napoli ha avuto modo di incrociare alcune grandi inchieste sul patrimonio culturale, ma anche le indagini sugli attentati mafiosi al patrimonio storico-artistico dello stato del 1993, è da due anni Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Qualche anno fa, come magistrato della Direzione nazionale antimafia, aveva promosso e partecipato a un convegno internazionale nell’ambito della Nazioni Unite e aveva parlato della “esperienza italiana” riguardo al “coinvolgimento del crimine organizzato nel traffico di beni artistici e antichità”. Aveva illustrato “il tradizionale ruolo dei gruppi mafiosi italiani (la Cosa nostra siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra napoletana, le analoghe formazioni attive in Puglia) nello sfruttamento illegale dei siti archeologici ubicati nei territori ove i medesimi esercitano le capacità di condizionamento criminale” e spiegato come i gruppi mafiosi utilizzassero “i mercati clandestini delle opere d’arte e dei reperti archeologici per il riciclaggio degli enormi proventi di altre attività delittuose (il traffico di stupefacenti, innanzitutto, ma anche il gioco d’azzardo, il racket estorsivo, il contrabbando, la contraffazione di merci)”. Un ambito di riflessione mai abbandonato, soprattutto ora che il palazzo di via Giulia è la sede della sua attività. Alcuni mesi fa, con i suoi collaboratori, ha deciso di mettere in pratica un’idea che covava da tempo. Si è fatto destinare, in deposito dal Museo Nazionale Romano diretto da Stephan Verger e dalla Direzione generale dei musei di Massimo Osanna, alcune di quelle opere confiscate (molte alla mafia, vedremo) per esporle nei corridoi della procura: non solo per l’ammirazione di ospiti illustri ma anche, in futuro, appena si potrà, per la visita di studenti, di scolaresche, di cittadini. C’è un grande impegno dello stato per insegnare ai giovani cosa sia la lotta alla criminalità organizzata, spesso non è facile materializzare ai loro occhi il concetto di “beni sequestrati”. Poter mostrare opere d’arte che erano state rubate e che ora invece simboleggiano la vittoria dello stato, e anche la forza dell’identità nazionale, è un’idea semplice ed efficace.
Non è facile materializzare il concetto di “beni sequestrati”. Queste opere d’arte simboleggiano la vittoria dello stato e l’identità nazionale
In un angolo dello studio del procuratore c’è la testa di una statua del II secolo dopo Cristo, forse un Apollo o forse un principe ellenistico, un marmo che il tempo ha irrimediabilmente rovinato ma la cui storia è un piccolo romanzo, o l’inizio di un romanzo. Ce la racconta il luogotenente Sebastiano M. Antoci, che fa parte del “Tpc”, i Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, da ventinove anni, fiuto da detective e memoria fotografica algoritmica: “Fu recuperata presso un importante museo statunitense che l’aveva acquistata dal mercato antiquario”. Ma la storia è più complessa: “L’opera si trovava tra le fotografie di un ricettatore e mercante d’arte di origine campana che era deceduto a causa di un incidente stradale nel 1995”. E’ la vicenda dell’importante inchiesta denominata “Gerione”, la vedremo tra poco. “La statua era ancora sporca di terra con evidenti incrostazioni, sintomi che era stata evidentemente scavata di recente. Fu grazie a questa foto che fu possibile rivendicarla e rimpatriarla”.
Una testa di Settimio Severo all’asta a New York per 600 mila dollari. Numeri da capogiro solo se si pensa che i musei si riempiano per caso
L’edificio di mattoni e travertino sede della Procura distrettuale antimafia e antiterrorismo in via Giulia non è un palazzo nobiliare, ma la sua storia ha qualcosa che ne giustifica l’attuale destinazione d’uso. Fu costruito a metà del Seicento da Papa Innocenzo X come nuova prigione ispirata ai più moderni criteri di umanità nel trattamento dei carcerati, “Prigioni nuove” si chiamavano, rimase tale fino alla costruzione di Regina Coeli, poi divenne carcere minorile. L’idea di farne un luogo parzialmente aperto e capace di parlare ai cittadini è bella. Anche perché permette, come la prima pagina di un libro, di entrare in una grande storia, un grande romanzo se non fosse che è tutto vero: quello del lavoro che lo stato, spesso considerato distratto e lontano, svolge da decenni con i suoi carabinieri in difesa del suo patrimonio. Non solo lavoro di polizia, ma un vero “restoring” della nostra storia.
Il dossier “Attività operativa 2023” del Comando Tutela Patrimonio Culturale, presentato proprio nei giorni scorsi a Roma, non richiede troppe spiegazioni. Sulla copertina quest’anno fa bella mostra un’opera del nostro Ottocento, l’“Oracolo di Delfi” di Camillo Miola, rubato tra le due guerre a Napoli e “recuperato l’8 febbraio 2023 a Los Angeles, Stati Uniti d’America”. Perché i carabinieri non si occupano solo di archeologia, anche se per la storia stessa del nostro territorio, e soprattutto le condizioni storiche delle nostre regioni della Magna Grecia, molta dell’attività è dedicata a questo. Numeri eloquenti: in un anno sono stati recuperati 105.474 beni d’arte (67.963 reperti archeologici e 10.273 reperti paleontologici) per un valore complessivo stimato di 264.055.727 euro. Non tutto ovviamente sequestrato alla criminalità organizzata – nel lavoro del Tpc non rientra solo l’archeologia, ma qualsiasi reato contro i musei, le collezioni private, le chiese. Il 2023 è stato l’anno del rimpatrio di una testa in marmo dell’imperatore Settimio Severo, bottino di una rapina a mano armata nel 1985 all’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, finita all’asta a New York per 600 mila dollari. Numeri da capogiro soltanto se si è distratti, se si pensa che i musei siano scaffali che si riempiono per caso, se non si ha idea di quanto sia sterminato il patrimonio italiano.
“In questo momento siamo alla ricerca di circa un milione e 300 mila opere”, spiega il generale Gargaro, comandante del nucleo Tpc
“In questo momento siamo alla ricerca di circa un milione e 300 mila opere, nel senso che sono quelle schedate nei nostri database, di cui abbiamo certezza della sottrazione e di cui seguiamo gli indizi”, spiega il generale Francesco Gargaro, comandante del nucleo di Tutela Patrimonio Culturale. Allo stupore dell’interlocutore, risponde con la precisione di un manager abituato alle banche dati che il totale delle opere del nostro patrimonio di cui è provata la sparizione è decine di volte maggiore. “Ma le opere d’arte, a differenza di altri beni e refurtive, non sono destinate a sparire, a essere distrutte. Sono destinate al possesso di qualcuno. Prima o poi riemergono. Con pazienza, con metodo, con l’aggiornamento continuo dei database, le individueremo tutte. Non tutte saranno ritrovate, ma molte sì”. Fuori dalla finestra si vede la chiesa di Sant’Ignazio, la sede del Comando è da sempre qui, in questo straordinario palazzo rococò che fa da quinta di teatro alla piazza romana. Il “Nucleo tutela patrimonio artistico” è nato nel 1969, un’intuizione dell’allora capo di Stato maggiore, Arnaldo Ferrara, alle dipendenze del ministero della Pubblica istruzione: allora il ministero dei Beni culturali non era ancora nato. L’Italia è stata la prima nazione al mondo a dotarsi di un organismo di polizia specializzato in questo settore, in anticipo persino sulle indicazioni dell’Unesco. Un impegno non solo in Italia, e non solo per l’Italia. L’autorevolezza del nucleo di tutela dei carabinieri è un benchmark internazionale per governi, musei, galleristi e case d’aste. E l’esperienza maturata nei più diversi teatri di crisi, dal Kosovo all’Iraq alla Siria, è tale che il Tpc oggi fa parte per l’Italia del progetto “Unite4Heritage”, i cosiddetti “Caschi blu della cultura” sotto egida Unesco che a richiesta di singoli paesi contribuisce alla salvaguardia del patrimonio. Esiste una app scaricabile liberamente, “iTPC”, che rende disponibili i dati sui reperti trafugati e ritrovati. Una sezione specifica riporta il “censimento dei reperti archeologici trafugati in Iraq a partire dal 1990”. Conosciamo anche grazie a un film la leggenda dei Monuments Men, i trecentocinquanta uomini e donne di tredici paesi che salvarono i capolavori dell’arte durante la Seconda guerra mondiale. In quegli anni anche un italiano, Rodolfo Siviero, misteriosa figura di agente segreto e critico d’arte, lavorava avventurosamente per riportare in Italia i capolavori dalle razzie volute da Göring. Nel 2022 alle Gallerie del Quirinale una bella mostra raccontò l’“Arte salvata” in Italia dalle bombe e dalle spoliazioni naziste, spiegando come proprio in quel lavoro, spesso pericoloso, si sia forgiata anche una generazione di studiosi, sovrintendenti e conservatori che hanno contribuito a fare della storia dell’arte italiana uno dei nuclei identitari della nascente Repubblica.
Ma il lavoro di questo corpo di carabinieri unico al mondo – come i Monuments Men, sono poco più di trecento effettivi – può raccontare storie che abbracciano il presente e anche il futuro della tutela del patrimonio. Perché c’è anche l’Intelligenza Artificiale, spiega il generale Gargaro: “Siamo stati tra i primi a sperimentarla e utilizzarla, questa tecnologia permette il riconoscimento delle immagini e il loro confronto su una mole di dati gigantesca, un lavoro che prima si faceva a mano, lentamente, sulle fotografie”. Il progetto Swoads (Stolen Works Of Art Detection System) consente la raccolta automatica di dati e immagini provenienti da web, deep web e social media, per confrontarle con le foto delle opere da ricercare. Nel 2023, spiega il dossier del Comando, sono stati recuperati dai siti web oltre 31 mila beni (di cui 18 mila beni archivistici e librari) attraverso il confronto delle immagini.
Già, perché all’inizio di questo romanzo ci sono le fotografie. Le Polaroid. Ed è qui che la storia si intreccia anche con le storie della mafia.
Il padre di Matteo Messina Denaro, don Ciccio, aveva sfruttato e organizzato il traffico fino a diventare un esperto di arte greca e latina
A farci da Virgilio in questo mondo di misteri è un carabiniere speciale. Sebastiano Antoci ha i modi dell’uomo d’azione e la memoria fotografica di un database. Inchiesta dopo inchiesta la sua attività è diventata una vera passione, oggi è fra i più apprezzati esperti di archeomafie a livello internazionale. Si è molto parlato, di recente, dei misteriosi tesori archeologici transitati nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei padrini, il boss di Castelvetrano che ha costruito la sua storia e il suo potere (anche) sul mercato illecito delle opere della valle di Selinunte. Lui stesso s’è vantato con gli inquirenti che la ricchezza della famiglia veniva dal padre, don Ciccio Messina Denaro, che nel Dopoguerra aveva sfruttato e organizzato il traffico di beni archeologici, fino a diventare un esperto di arte greca e latina (preferiva essere definito così, don Ciccio) attraverso ricettatori e uomini ombra di un commercio internazionale. Un flusso con destinazione la Svizzera, terra promessa dei porti franchi: i magazzini in cui depositare merci di valore, lasciandole libere da vincoli doganali in attesa della loro destinazione finale. E tra questi beni uno dei più redditizi è l’arte. Quella legale, ma anche quella illegale. Chiasso, Zurigo, Basilea, Ginevra: i santuari.
Nel 2016 la procura di Ginevra restituì all’Italia due sarcofagi di terracotta etruschi trafugati trent’anni anni prima dalla zona di Cerveteri. Lo stesso anno a Ginevra furono sequestrati reperti illegali provenienti dalla Siria, dallo Yemen, dalla Libia. Il colpo alla credibilità del sistema elvetico dei porti franchi fu enorme, da allora furono varate nuove regole più stringenti con maggiori controlli. Anni e anni di lavoro dei segugi del Tpc avevano provocato un terremoto. Ma prima ancora del ritrovamento delle opere, racconta il luogotenente Antoci, che di solito preferisce lasciare la parola ai fatti, contano gli archivi. Si parte dai primi anni ‘90, anni tumultuosi per l’Italia e infuocati sul fronte delle guerre di mafia. Il traffico archeologico è solo apparentemente un filone minore. Poi arriva l’indagine “Medici”, e nel 1995 sarà un primo colpo. I carabinieri scoprono che il fulcro del mercato archeologico è in Svizzera. Una Società commerciale anonima, attiva nel porto franco di Ginevra ma con sede fiscale a Panama. In alcuni caveau blindati gli oggetti sono esposti come in veri atelier. Vennero sequestrati migliaia di reperti di provenienza italiana, “ma soprattutto un’abbondante documentazione fotografica”. Fotografare i reperti e conservarli, perché? “Per i tombaroli la Polaroid è la testimonianza di quanto trovato, di quanto in loro possesso”, spiega il detective. “Per il ricettatore e il trafficante è invece un archivio, o un catalogo, ma anche una possibile fonte di ricatto: chi acquista sa che qualcuno conosce la provenienza”. A capo dell’organizzazione un italiano, Giacomo Medici. “Le fotografie ritraevano anche reperti ‘inediti’, ancora sporchi di terra, con incrostazioni tali da ricondurli a recentissime ricerche clandestine”. La documentazione porta in Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Giappone, Australia, Stati Uniti. Per chiudere la vicenda processuale ci vollero dieci anni. Intanto l’aria era cambiata e i più importanti musei americani iniziavano a verificare con l’Italia le loro collezioni. Il Fine Arts Museum di Boston fu il primo, tornarono in Italia la statua di Vibia Sabina, moglie di Adriano e numerosi altri beni. Successivamente si emendarono il Paul Getty Museum di Malibù, il Museum of Art di Princeton, il Metropolitan di New York. Tornò il famoso “vaso di Eufronio” sparito da Cerveteri, un capolavoro.
Più romanzesca è l’indagine “Gerione” iniziata negli anni 1995-96 e che prende il nome da uno dei capolavori salvati. Racconta Antoci: nel settembre 1995 un ex capitano della Finanza, Pasquale Camera, muore sull’Autostrada del sole. L’uomo era noto col soprannome ‘O Capitano, o Pasqualone, perché era da tempo passato dalla parte dei trafficanti. I carabinieri perquisiscono l’auto, a bordo aveva anche un’immagine della celebre “Artemide marciante”, mai ritrovata tra i 12 mila oggetti che furono sequestrati. Ma decisivo fu il ritrovamento a casa di ‘O Capitano di un vero e proprio organigramma dei tombaroli, dei ricettatori e dei mercanti internazionali.
L’indagine denominata “Teseo”, che riportò tra gli altri il famoso “vaso di Assteas” dal Getty Museum di Malibù, porta a sfiorare da vicino i misteri di Messina Denaro. In quell’inchiesta fu infatti finalmente messa a fuoco la figura di un intermediario, Giovanni Franco Becchina, che aveva curato proprio la vendita del famoso vaso al Getty. Un nome già noto agli investigatori poiché presente nel famoso organigramma di “Pasqualone” Camera. Società in Italia e all’estero. Una complessa inchiesta del Tpc, tra controlli e pedinamenti degni di un film, inquadrò Becchina e il suo porto franco a Basilea, dove era proprietario di una galleria, il Palladion Antike Kunst. Furono trovati cinque magazzini pieni di reperti illeciti e decine di faldoni contenenti carte, appunti e fotografie. I vasi che oggi si possono ammirare al piano terreno della Procura antimafia in via Giulia provengono proprio da quel sequestro. Di Becchina, originario di Castelvetrano, imprenditore con molte attività anche extra archeologiche (che si definiva “un mecenate, un collezionista, estraneo a ogni tipo di vendita illegale di oggetti d’arte”), si capirà il ruolo chiave nel sistema che faceva capo al celebre boss mafioso latitante. Una rete di controllo dei siti archeologici enorme. Al padre di Messina Denaro, don Ciccio, è del resto legato uno dei misteri più famosi, la scomparsa dell’“Efebo di Selinunte” nel 1962: una piccola statua greca, 85 centimetri (soprannominata “u pupu”) che faceva bella mostra sul tavolo del sindaco di Castelvetrano e che venne recuperata solo nel 1968. Ai legami internazionali di Gianfranco Becchina è legato anche un altro dei ritrovamenti più importanti dell’ultimo decennio, stavolta in collaborazione con l’Fbi, quello della “Bella addormentata”, il coperchio di un sarcofago romano in marmo di Carrara, stimato milioni di dollari, scomparso da più di trent’anni e finito in un magazzino nel Queens a New York.
La “Bella addormentata” era adagiata in una cassa pronta per essere spedita al suo acquirente, un mercante d’antiquariato giapponese, Noriyoshi Horiuchi, nome famoso nell’ambiente e legato a Becchina. Ma il misterioso Becchina non sarà mai condannato per questi traffici; gli saranno però confiscati tutti i beni ritrovati e il materiale d’archivio. Ma quel flusso illegale durato decenni attorno al Parco archeologico di Selinunte e Mazara del Vallo era finalmente venuto alla luce, proprio come i reperti scavati nottetempo da un esercito di tombaroli. I “Becchina dossier”, tredicimila documenti, hanno cambiato la storia della lotta a questo tipo di reati. Queste inchieste sono un pezzo della storia d’Italia e della crescita della sua consapevolezza nazionale come un unicum mondiale nella storia dell’arte, e sono state spesso narrate. C’è ad esempio un bel libro di Fabio Isman, decano dei giornalisti culturali, “I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia” (Skira). C’è una serie di Sky del 2021, “Art Raiders - Caccia ai tombaroli”.
Le opere non sono destinate a essere distrutte, ripetono i carabinieri del Tpc: qualcuno vuole possederle. Prima o poi le troveremo
Non solo mafia, non solo antichità. Ma in generale le opere d’arte (tra le medaglie del Tpc c’è la soluzione, nel 1975, del “furto del secolo”, quando dal Palazzo Ducale di Urbino furono rubati tre capolavori assoluti, “La Muta” di Raffaello, “La Flagellazione” e “La Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca). Oppure il furto di libri antichi (il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini a Napoli è il caso più celebre recente), il patrimonio religioso, ai furti di commissione – ora in leggero calo, spiegano i carabinieri, anche per l’efficienza dei database e dell’IA – il lavoro del Tpc è a tutto campo. Ma non è soltanto quello di svolgere indagine. E’ decisiva anche la consapevolezza che il lavoro svolto serve a recuperare, su un piano culturale e simbolico, la presenza dello Stato e il suo prestigio anche internazionale. Lo scorso giugno un altro successo di forte impatto internazionale è stata ad esempio la restituzione dalla Germania di quattordici preziose opere che erano state contrabbandate in Baviera. Con la Germania è ancora aperta una partita investigativa e diplomatica appassionante. Nonostante la legislazione restrittiva che Berlino ha introdotto negli ultimi decenni, all’Altes Museum di Berlino fanno bella mostra di sé una ventina di grandi vasi provenienti dalla Magna Grecia, ceramica apula famosa per le figure rosse su fondo nero e attribuiti al cosiddetto “pittore di Dario”. Secondo i database italiani sospetti di essere stati trafugati. Ci vuole pazienza. Ma le opere d’arte non sono destinate a essere distrutte, ripetono sempre i carabinieri del Tpc: se vengono rubate è perché qualcuno vuole possederle, conservarle, rivenderle. Prima o poi le troveremo.
Perché, come dimostra anche l’iniziativa dei capolavori esposti in via Giulia, nella sede della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, il patrimonio culturale è parte della nostra identità. Nel 2019 il palazzo dei Conservatori in Campidoglio aveva ospitato una mostra importante: “L’arte ritrovata. L’impegno dell’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del nostro patrimonio culturale. Ora c’è anche via Giulia, fieri di questa storia.