Il reportage
La paziente inglese: lo sfollamento di Viterbo alle prese con una bomba di 2 tonnellate sganciata nel 1944
Le sirene, la zona rossa, gli artificieri: evacuate 36 mila persone per un ordigno mai esploso. Viaggio nei centri d'accoglienza tra i ricordi della Seconda guerra mondiale e i conflitti che puntellano le nostre vite
Viterbo, dal nostro inviato. Urla la sirena. Un occhio all’orologio: sei ore e qualche minuto. Evacuazione terminata. I vecchi caracollano verso i portoni. Il pericolo, mai tanto percepito, è rientrato. La zona rossa si frantuma. I 54 varchi presidiati dalle forze dell’ordine si sciolgono. I centri d’accoglienza si svuotano. I droni non volano più nel cielo. Chissà se intanto gli sciacalli avranno approfittato di case e negozi vuoti. Se ne va il silenzio urbano modalità Covid. Oltre trentamila persone possono ritornare a pensare che la guerra, quella vera, c’è solo in Ucraina e in medio oriente, per restare vicini. E che le bombe sono altre, citofonare Cremlino per esempio, non questo scaldabagno enorme spuntato fuori da una curva della Seconda guerra mondiale: tritolo e mercurio. Effetto sismico. Se avesse fatto il suo dovere sarebbe saltata mezza città. Allora come oggi. Fortuna l’esercito. Che mani d’oro, gli artificieri.
Il “bomba day”, che già dal nome non sembra così funesto, può dirsi concluso. Una delle più grandi evacuazioni avvenute in Italia per colpa di un vecchio ordigno bellico torna nei racconti dei siti e dei giornali locali. Sindaca, questore, prefetto commentano soddisfatti. Ci scappa pure lo spumantino, e magari due tozzetti con le nocciole di Caprarola, perché sempre a Viterbo siamo, nella Tuscia, provincia etrusca alle porte di Roma. Ogni dolore vuole il suo boccone. Figurarsi i pericoli scampati.
Sicché la guerra torna a essere quella cosa lì, lontana ma non lontanissima. Abbastanza vicina per tornare al bar del Comune – quanto mancava l’espresso in tazza – a sentire parlare di pace a Kiyv, delle ragioni della Russia, di Salvini e Meloni, che sono tornati a litigare, dei diritti dei palestinesi e di quelli di Israele. “A me il caffè se me lo macchia. A proposito, com’è andata l’evacuazione?”. “Che domande: una bomba!”.
Investire sul mattone da queste parti riserva sempre sorprese. Il prezzo degli immobili in città è andato a picco (crisi, degrado, allarme sicurezza, servizi balbettanti, con Fratelli d’Italia al 40 per cento, anche se non regnante). Il “vecchio”, anche di pregio, si aggira intorno ai mille euro a metro quadro. Come una cantina nella romana Centocelle o nella milanese Baggio. E quando si cerca il “nuovo”, con tutti gli standard energetici come si deve, ecco lo stupore. In un quartiere a ridosso delle mura medievali e della stazione ferroviaria di Porta Fiorentina gli escavatori di una ditta edile lo scorso 20 marzo hanno trovato, ma in questi casi tutti dicono rinvenuto, una bomba di due tonnellate. Due ipotesi storiche. Fu sganciata, insieme a una miriade di altre, dagli incursori alleati a copertura dello sbarco di Anzio nel 1944, la notte del 17 gennaio. Ordigno della perfida Albione, nella pancia della Royal Air Force (Raf) modello Mik IV. O forse cadde dal cielo il 25 maggio sempre nel 1944, sempre per mano inglese. Scrisse a tal proposito il professore Sandro Vismara, primo e storico corrispondente da Viterbo del Messaggero: “Anche questa volta il suono delle sirene precedette solo di qualche secondo l’inizio del bombardamento: fu una mezz’ora di angoscia e di incubo per tutti i viterbesi addossati ai muri maestri delle loro case, cogli occhi illuminati dai riflessi sinistri dei bengala e colle orecchie straziate dal fischio lacerante del governale delle bombe. Ricordo ancora con una stretta al cuore lo sguardo terrorizzato di un bambino che ripeteva con voce monotona: ‘Mamma, quando finisce?’ Mamma, perché non finisce?’. E mi auguro che a reggere i popoli siano sempre uomini che abbiano provato anche per una sola volta lo strazio di una popolazione sottoposta ad un bombardamento aereo, perché sono certo che in questo caso mai una nuova guerra lancerà gli uni contro gli altri gli uomini creati da Dio per comprendersi e per amarsi”. Vismara si sbagliava e comunque questa bomba, almeno, non esplose.
Per ottant’anni, la “paziente inglese” è stata la sonnacchiosa ospite di una villetta borghese a due piani. Ben adagiata sotto una piscina privata dove hanno giocato e fatto feste – magari con altre bombe – una generazione della Viterbo bene (qui i pariolini si chiamavano piazzacrispini). Sembra un grande scaldabagno, come tre messi insieme. Un boiler d’acqua da villaggio turistico in Calabria o in Puglia. Ma arrugginito e coperto di terra con sopra tre minacciose spolette, fortuna non belligeranti. Una sòla, insomma. La bomba è spuntata fuori quando, dopo la morte della proprietaria della villa, gli eredi hanno deciso di vendere la “roba” della nonna a un costruttore locale pronto a demolire tutto e a tirare su una palazzina. Poi appunto un mese e mezzo fa, a cantiere ben avviato, la benna dell’escavatore ha sentito “il duro”. Rumore sordo. Metallico. L’operaio ha picchiato ancora più forte, ma niente, la terra non si muoveva. Una, due, tre botte. Niente. “Capo, abbiamo un problema: mi sa che c’è una bomba, qui sotto. Mi sa che per oggi ho finito di lavorare”.
Così la città dei papi – perché qui si tenne il primo Conclave della Chiesa – è tornata a fare i conti con il “bomba day”. Accadde già nel 2007 e nel 2017, con cadenza ormai quasi semi giubilare. Il sottosuolo della provincia ne è pieno, altro che petrolio e funghi porcini. L’assessore all’Urbanistica Emanuele Aronne dice che vorrebbe mappare tutto il territorio confrontando i filmati dall’alto girati dalla Raf, prima e dopo i bombardamenti. Ne scaturirebbe forse una nuova forma di turismo o il palco di un dibattito elettorale per le europee fra Michele Santoro e Carlo Calenda.
E comunque invece di chiudersi – cum clave, appunto – la malfidata città di peperino e profferli è stata costretta ad aprirsi. A scappare per mezza giornata. Zona rossa, piano di crisi, evacuazione. Alle nove tutti fuori. Tre centri di raccolta sfollati nelle parrocchie: perché non si dica neanche un prete per chiacchierar. Ventiquattro punti di ritrovo per il trasporto con i mezzi messi a disposizione dal Comune. Un’area dedicata ai fragili, un toccante lazzaretto. Chi resta dentro alla zona rossa, e viene scoperto, si becca una denuncia per avere violato l’ordinanza (si aspettano, e si cercano, temerarie stories su Instagram e balletti su TikTok dei maranza locali: arriveranno). Le sirene annunceranno il ritorno alla normalità, insieme a un post sulla pagina Facebook del Comune di Viterbo, alle 15.20.
Sulla carta trentaseimila (36 mila) persone costrette a lasciare case, scuole, negozi e uffici compresi in un raggio di 1,4 chilometri. Un piano della questura contro possibili sciacallaggi nelle case orfane dei padroni. I parenti ricoverati all’ospedale di Belcolle (fuori dall’area dell’evacuazione, al contrario di tre case di cura) che la notte della vigilia si raccomandano “alla calma” tipo Palmiro Togliatti dal letto dopo il ferimento per mano di Pallante: “Stai calmo, mi raccomando. Ma chiudi bene la porta di casa!”. Nove droni sopra la città a vigilare l’operazione speciale. Sesto reggimento pionieri di Roma allertato e in azione. Segni particolari dell’ordigno letti nella relazione degli artificieri dell’esercito: “Grandi dimensioni, toccabile, irremovibile”. Una volta disinnescata, la bomba sarà trasportata nel poligono militare di Monte Romano scortata per una trentina di chilometri da una lunga colonna di mezzi militari. Strade chiuse, treni deviati, silenzio come ai tempi del lockdown, e chi se lo ricordava più il rumore del niente. Nel primo raggio di cinquecento metri da dove è stata rinvenuta la “paziente inglese” tutte le vie sono state liberate dalle auto. Acqua, luce e gas staccati d’imperio. Tutti gli altri dovranno fare altrettanto, ma motu proprio. “Non prendete gli ascensori, attenzione ai cancelli elettrici”. Allertati anche i pellegrini amanti della Via Francigena: girate alla larga per qualche ora, passi lunghi e ben distesi. Alla fine sarà una scocciatura per i grandi e un giorno di festa, lontani dalle scuole chiuse, per i piccoli. Animali domestici ammessi nella grande fuga, cani e gatti spaventatissimi e scombussolati, così come i giocattolini non ingombranti. Il comune ha cercato di informare per giorni la popolazione in tutti i modi: social, gazebo in piazza, volantini, giornali, manifesti e siti internet. La sindaca civica Chiara Frontini, abituata a gestire una mina vagante come l’assessore alla Bellezza Vittorio Sgarbi, si gioca molta credibilità sulla macchina organizzativa del grande evento fuori dal tempo. Assistenza domiciliare agli anziani da far evacuare, cibo e bevande per pranzo agli sfollati che non hanno parenti e amici fuori città con cui trascorrere questa giornata.
Così lontana da noi, mentre Israele chiede l’evacuazione dell’est di Rafah, mentre per mesi i russi hanno costretto all’evacuazione coatta gli ucraini.
Le facce non sono le stesse, ovvio. Qui è maggioranza la mozione Angelina Mango: quella della noia. Le guerre vere non sembrano lambirci e questa operazione è accolta come una burocratica scocciatura con appendici di banale humour che da giorni si coglie nei bar del centro al momento di pagare il caffè: “Allora buon bomba day”. “Domani sarà una giornata esplosiva”. Si è scelto martedì 7 maggio, un giorno infrasettimanale, per non turbare il weekend a Viterbo, momento in cui si vedono i turisti nel quartiere medievale di San Pellegrino.
Il cronista sfollato, che non si sente un inviato di guerra ma al massimo di provincia, raggiunge il centro di raccolta della parrocchia della Sacra famiglia, nel quartiere Carmine Salamaro, punto di ritrovo di chi abita in centro. E infatti l’effetto è quello di un centro di prima accoglienza, ma molto gioioso, dove immigrati nigeriani, malesi, marocchini, egiziani, afghani, tunisini stanno insieme in attesa di poter tornare nelle loro case. Sono loro i veri residenti. I bambini giocano col pallone, le mamme velate stanno al cellulare. Il prete voleva celebrare messa, ma fuori c’è anche il sole. Molti di loro sono scappati dalla guerra, via barcone e peripezie, e ora eccoli qua alle prese con una cosa che dicono di non capire: una bomba che ha fatto cilecca ottanta anni fa. Sembra di stare a scuola quando c’erano le esercitazioni anti incendio. Impossibile cercare l’obiettivo della giornata: un testimone oculare, viterbese, di quel bombardamento del 1944. Sarebbe il virgolettato-gemma della giornata, ma niente. Polizia e Guardia di Finanza prendono il microfono per informare gli sfollati sul rischio truffe in centro. E’ un po’ grottesco. Nessuno, o quasi, qui li ascolta. “Io mi avvio ai novant’anni e mi ricordo i bombardamenti a San Lorenzo, anche qualcosina del rastrellamento del ghetto di Roma”, dice Elsa Emiliani, già insegnante di italiano al locale istituto per ragionieri “Paolo Savi”.
Espone rughe dritte e ragionamenti tondi che meritano di essere ascoltati. “La nostra generazione riuscì a reagire, la vostra è persa”, dice l’anziana, e chissà che non abbia torto, intercettata nel secondo centro d’accoglienza. Questa volta nel quartiere Mazzetta – che non c’entra nulla con Tangentopoli – dove però è pieno di sfollati viterbesi, o quasi, doc. Il parroco don Pino ha tirato fuori la tombola di Natale. Ha chiamato anche un signore con la pianola. Scatta un “Cacao meravigliao” e un non seguitissimo liscio, più valzer. Ballano in pochi. Polizia, protezione civile seguono sui siti le operazioni di disinnesco. Iniziate, a città evacuata, intorno alle 10.25. Tre spolette sopra la bomba da neutralizzare. Le telecamere del tg Rai regionale all’opera e per nulla scioperanti. La sindaca Frontini che in diretta ringrazia il senso civico della popolazione davanti a “Lady Rose”: così è stato chiamato l’ordigno in nome di Santa Rosa, la santa bambina a cui il 3 settembre è dedicato il trasporto della Macchina (100 facchini vestiti di bianco con una bandana rossa in testa e ai fianchi che si accollano un peso sovrumano e una scultura alta più di 30 metri durante una processione per le vie del centro lunga più di un chilometro). Piove, si avvicina l’ora di pranzo. Pasta fredda, acqua e marmellatina di frutta: è il pranzo distribuito agli evacuati. La bomba qui la chiamano, in dialetto locale, “sardella”. Per stare a significare un oggetto imponente e potenzialmente devastante. “Hai visto che sardella?”. Non si trovano voci di “io c’ero”, “io, mi ricordo”. La guerra viene percepita come una storia lontana, nonostante i telegiornali. Una cosa che non ci riguarda. Non si sa se sia ignavia, cinismo o fatalismo. Resta solo l’articolo che Massimiliano Vismara, figlio d’arte del cronista professore Sandro, ci ha consegnato. “Davanti ai miei occhi è ancora vivo il quadro di quei giorni di dolore: persone lacere ed impolverate, collo sguardo assente e le guance rigate dalle lacrime e dalla polvere, cercano tra le macerie quelli che fino a ieri erano stati gli umili e pur cari compagni della vita quotidiana: un mobile, un libro, un vestito. All’intorno il silenzio dell'abbandono. Più lontano altri infelici cercano anch’essi, tra le macerie, forse le loro cose, forse i loro morti”.
Sono cronache di ottanta anni fa, ma forse no. Poi un ragazzo incontra una ragazza: “Questa sera: poke di pesce o sushi brasiliano?”.
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