UN PO' MOSCIA, QUESTA INTIFADA

Viaggio nella protesta pro Palestina all'università di Bologna

Jacopo Strapparava

Ci siamo infiltrati tra le tende degli studenti in piazza Scaravilli, in zona universitaria. Cosa abbiamo visto? Donne velate. Uomini con la gonna. Erba libera. Birrette. Poesie in arabo. Più fricchettoni che rivoluzionari. Discutono per ore senza arrivare mai al dunque. In definitiva? Una noia mortale

A un certo punto sono comparsi pure uomini con la gonna. Amici globalizzati assicurano: “In certi quartieri di Londra è normale”, “sì, anche a Berlino siamo abituati”. Ma qui non siamo a Londra o a Berlino, siamo a Bologna. Sia messo agli annali che a Bologna, nell’anno 2024, un uomo con la gonna ancora fa notizia. Anche se forse, ragionandoci a mente fredda, la visione è da attribuire ai cannabinoidi diffusi nell’aria più che alle avanguardie woke.

 

Siamo a Bologna, si diceva, e per la precisione in piazza Scaravilli, tra il dipartimento di economia e il rettorato, subito dietro piazza Verdi. È qui che ormai da dieci giorni gli studenti pro-Palestina hanno montato le loro tende. Sono stati i primi in Italia. E forse sarà proprio per via del fatto che sono qui da così tanto tempo, forse per effetto prolungato dei suddetti cannabinoidi, che il tutto, agli occhi del cronista, appare un po’ deludente. La protesta? Un po’ moscia. I rivoluzionari? Pochini, considerando una popolazione studentesca di novantamila persone. I nuovi sessantottini? Più sul genere fricchettone, che sul genere fedayn.

 

I portici della zona universitaria, per dire, sono stati tutti imbrattati con scritte verdi pro-Gaza, ma un imbianchino – lui sì, veramente arabo, ancorché con perfetto accento bolognese – sta già passando a dare una mano di intonaco. “Ci siamo presi la piazza”, ti vengono a dire, ma chi vuole andare in facoltà entra ed esce senza problemi. “Abbiamo messo barricate in via Zamboni”, ma sono solo dei gazebo piazzati in mezzo alla strada e la gente li scavalca nella più totale indifferenza. Insomma: infiltrarsi, per il cronista spione, è davvero facilissimo. Unico accorgimento: mettere via il bloc-notes, per non farsi scoprire. Gli appunti si prendono a mente o sul cellulare. Dunque, andando a memoria. Ragazze con la kefiah. Ragazze in hijab. Tavoli da campeggio adibiti a zona studio. Birrette. Carrelli della spesa arrivati da chissà dove. Coppie di amici che giocano a carte. Esseri dal sesso incerto. Un ragazzo e una ragazza, fatti alla maniera tradizionale, incuranti del genocidio, dell’imperialismo e di Judith Butler, che se ne stanno appartati in un angolo e tubano come tortorelle. Una piantina di ulivo cui è stato attaccato il cartello “Hurriya. Libertà”.

 

Una foto che ritrae Giovanni Molari, magnifico rettore, truccato da pagliaccio, con il naso rosso e la parrucca arcobaleno. Uno striscione rosso con scritta bianca, che accusa Giorgia Meloni di essere complice del genocidio a Gaza. Una profuga palestinese invitata a leggere poesie in arabo. “La prima psicologa musulmana dell’Emilia-Romagna”, velata dalla testa ai piedi, che tiene una lezione sull’importanza di “decolonizzare la psicologia”. “La psicologia è troppo dominata dalle teorie occidentali”. “Le teorie psicologiche sono state pensate da maschi bianchi occidentali, per questo non riconoscono il privilegio”. “Non c’è educazione intorno ai privilegi”. “È innato, il privilegio”. Assemblee eterne in cui non si decide niente. La logorrea dei capetti. “Dobbiamo combattere i mezzi d’informazione che ci dipingono come vogliono loro!” (e qui viene voglia di farsi piccoli piccoli…). “Io provo lutto per quello che sta avvenendo in Palestina, penso che elaborarlo assieme sarebbe produttivo politicamente, artisticamente e spiritualmente”. “Le soggettività che ci ospitano” e devono essere i barboni africani che già dormivano nella piazza prima che arrivassero loro a montare le tende.

 

Il femminile sovra-esteso generalizzato, poiché oltre al ridondante “Ciao a tutti e a tutte” ormai i rivoluzionari arrivano a dire “Care compagne, dobbiamo essere caute ma determinate!” anche se sono maschi. Gli inglesismi. L’armamentario lessicale delle generazioni cresciute con internet. “L’ansia”. “Il privilegio”. “La salute mentale” “I contenuti”. “Lo condivido”. “Scusate, ho l’ansia”. “Questa intifada sta facendo bene alla mia salute mentale perché mi dà speranza nel futuro”. La noia mortale che viene a sentire questi discorsi. Un professore straniero che esce dalla facoltà, vede che sta iniziando a piovere, china lo sguardo sulle cinquantasei tende già umide e sospira: “Poor guys”. Poveri ragazzi.

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