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Riflessioni

Cura, ricerca, studenti. Anelli raccontato con le sue parole

L’umanità del paziente. Un ricordo dell’ex rettore della Cattolica, morto suicida all’età di sessant’anni 

Pubblichiamo l’estratto di un discorso tenuto  il 16 febbraio 2023 dall’ex rettore della Cattolica Franco Anelli, morto suicida all’età di sessant’anni.



 

Un bravo ricercatore è colui che sa raccogliere fondi e li usa per produrre lavori ad alto impatto bibliografico, che poi lo agevoleranno nell’accesso ad ulteriori fondi. Wissenschaft als Beruf – la scienza come professione è il titolo di una celebre conferenza di Max Weber del 1919 – ma oggi sempre più spesso Beruf, sembra voler dire soltanto “mestiere”. In realtà, la ricerca è un’impresa più alta e nobile, che non può sottrarsi a un interrogativo sul senso dell’agire dello scienziato. Fare ricerca in una materia delicata come la medicina non si esaurisce nel porsi il pur importante traguardo di elaborare nuovi protocolli e tecniche terapeutiche da applicare nella pratica clinica.

L’indagine scientifica è tensione verso l’espansione della conoscenza e dunque non se ne può parlare senza riflettere su cosa intimamente sia questa esplorazione, su quali opzioni di senso e scelte anche etiche (e talora economiche) siano ad essa sottese. Questa domanda si pone con forza proprio in un’università, che, tengo a ribadirlo, ha un’identità e una vocazione diversa da quella di un centro di eccellenza nella ricerca clinica o di un ospedale specializzato. Perché ci sono loro, gli studenti. La loro attesa non solo di conoscenze, competenze e abilità pratiche, ma anche di significato è una domanda talora implicita, inespressa nella quotidianità del lavoro, ma costante. Spesso chiediamo agli studenti, perché hanno scelto di studiare una certa disciplina; non ci chiediamo perché gliela insegniamo e ancora meno ci chiediamo perché facciamo ricerca, a che serve? con quali obiettivi ultimi? La speranza di aprire tutte le porte, di svelare tutti gli interrogativi è illusoria. La realtà dell’università è una macchina pensata per generare domande; per educare persone capaci di formulare sempre nuovi interrogativi e non appagarsi delle risposte; per essere continuamente attratti, sedotti dalla volontà di comprendere. “Non so come apparirò al mondo – ha scritto Isaac Newton descrivendo la sua condizione di scienziato – Mi sembra soltanto di essere stato un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva insondato davanti a me”.

Nella contemplazione dell’ignoto, nella curiosità che induce a varcarne la soglia sta il brivido della ricerca, il suo fascino, la sua bellezza. Un altro grande fisico, Paul Dirac, commentando una delle sue celebri equazioni disse che “Una teoria che include la bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e corretta rispetto ad una teoria sgradevole, pur confermata dai dati sperimentali”. Ma la bellezza, diceva Sant’Agostino, è mutevole. E anche la conoscenza. Chi fa ricerca deve essere sempre pronto, in ogni momento, a rivedere le certezze consolidate, a ricostruire dalle fondamenta l’edificio del sapere. È evidente, quasi scontato, il carattere cumulativo della conoscenza scientifica, che in un ideale processo diacronico, che attraversa i secoli, viene stratificata, custodita, tramandata e arricchita ad ogni passo. È stato detto che la crescita quantitativa della conoscenza somiglia all’affascinante processo di costruzione della Sagrada Familia di Gaudì: man mano che la costruzione prosegue, aggiungendo un nuovo elemento architettonico, il disegno appare sempre più stupefacente. Per certi versi, d’altronde, innalzati sul piedistallo di un patrimonio di conoscenze cresciute esponenzialmente negli anni recenti, ci sentiamo piuttosto lontani dall’insondabile oceano di Newton. Cerchiamo di capire il mondo per trasformarlo e non si può negare che per molto tempo, dalla stagione del positivismo in poi, abbiamo confidato in questa linearità del progresso del sapere. La fisica, la chimica, la biologia, le scienze della natura in generale, ci consegnavano informazioni sempre nuove e utili, perché la loro applicazione tecnica offriva nuovi strumenti, per migliorare la vita quotidiana, produrre beni, diffondere il benessere. La domesticazione dell’ignoto segnava costanti successi, apparentemente inarrestabili e, appunto, lineari, progressivi, incrementali. Il problema etico, il problema della scelta, regrediva al livello dell’uso delle conoscenze, o meglio delle tecnologie.

Tuttavia, mentre si diffondeva un fiducioso ottimismo nell’incedere del sapere, chi rifletteva sui fondamenti teorici del processo scientifico non mancava di ricordare che la conoscenza nuova non lascia inalterato il passato; non è, per quanto possa superficialmente dare questa impressione, puro accumulo: in qualsiasi momento una nuova scoperta può irrompere e sconvolgere il quadro, ridefinire le conoscenze di ieri e attribuire loro un nuovo senso e un nuovo ordine, e a volte addirittura le confuta. L’ignoto, dunque, si può aprire anche alle nostre spalle, quando ci accorgiamo di dover ripensare ciò che appariva acquisito. Un tale fenomeno sta accadendo, sotto i nostri occhi, con lo sviluppo della scienza dei dati e l’intelligenza artificiale. Una suggestione stimolante, ma anche inquietante, è stata data da un noto articolo di Chris Anderson su Wired del 2008, dal titolo “La fine della teoria”: il diluvio dei dati rende il metodo scientifico obsoleto. La sua posizione è perentoria circa la “fine della teoria” causata dalla nuova scienza dei dati, da non pochi ritenuta un autentico cambio di paradigma che si riverbera anche sulle scienze umane: “È finita per ogni teoria del comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia. Dimenticate la tassonomia, l’ontologia e la psicologia. Chi lo sa perché le persone fanno quel che fanno? Il punto è che lo fanno, e noi possiamo misurarlo con una fedeltà senza precedenti. Se si dispone di abbastanza dati, i numeri parlano da soli”. Insomma torna davanti a noi una nuova manifestazione del caos, di una realtà il cui ordine ci sfugge, associata a una sorta di rinuncia a ricostruire l’ordine infranto. La radicalità del mutamento è tale, si è detto, che “anche la ricerca educativa sarà chiamata a decidere quale strada imboccare”.

La rivoluzione dei dati sembra proiettare verso un abbandono della ricerca di senso, di ordine, di teoria appunto. E si associa all’altro radicale problema, quello della dimensione della delega che si sta conferendo agli algoritmi, i quali elaborano la massa infinita dei dati imperscrutabili all’uomo, nei processi analitici e in quelli decisionali. L’entità delle questioni spaventa, indubbiamente, perché ci riporta davanti all’oceano di Newton, che stavolta appare meno un oceano di verità, ma di ignoto. Tuttavia non possiamo attribuire al progresso scientifico e tecnologico un carattere disincarnato, perché è alle necessità umane che esso, comunque, va riportato.

La questione, in medicina, si pone con particolare urgenza. Non vi è dubbio che molta riflessione antropologica, di etica fondamentale e applicata si sia concentrata in questi decenni sulla questione di una temuta disumanizzazione della medicina, sull’importanza della relazione umana nell’atto terapeutico, che è appunto un prendersi cura dell’altro. Una relazione che impallidisce di fronte alla crescente delega, come prima accennavo, di molte attività, e perfino decisioni, a processi in vario modo “meccanizzati”. Proprio l’ansia di umanità sospinge le ricerche mediche che sottolineano l’importanza di un approccio integrato, dove lo stato di salute di un paziente è una risultante che emerge dall’interazione di innumerevoli fattori sottostanti. Al di là dei mutamenti epistemologici della scienza medica –– o delle scienze mediche, sempre più specialistiche e frammentate –– mi sembra che siano due i parametri che troviamo sempre come riferimento strutturale alla sua applicazione quotidiana.

All’inizio, per così dire, della ricerca c’è l’uomo. Motivato dall’innata e naturale sete di conoscenza, affascinato dalla bellezza dei meccanismi che va progressivamente scoprendo e che continuamente ci rivelano aspetti inediti di un organismo, quello umano, che ad ogni passo appare sempre più sorprendente. L’altra costante, si trova –– sempre metaforicamente –– alla fine del percorso, ed è ciò che dà senso e significato ai nostri sforzi, che dà forma alla conoscenza. Ed è di nuovo l’uomo. C’è, infatti, un dato insopprimibile nell’atto medico, una verità dalla quale la ricerca non sfugge: l’umanità del paziente. Perché quello che vogliamo è lenire il nostro dolore, curare le nostre malattie, salvare quanti più esseri umani possibile. La scienza medica è quindi, inevitabilmente, scienza dell’uomo per l’uomo. Torniamo allora all’antico, Ippocrate, che enuncia una sintesi nella quale ancora oggi possiamo trovare ispirazione: “Se c’è amore per l’uomo, ci sarà anche amore per la scienza”.

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