cronaca a vanvera

Spopolano le interviste agli scrittori sui delitti commessi vicino a casa loro. Il caso dell'omicidio di Pescara

Arnaldo Greco

Aggiungono davvero valore? O è solo un'abitudine senza senso? Una tradizione discutibile e quella frase di Wittgenstein che citiamo sempre fuori contesto e non ci viene mai in mente quando serve

Una prassi ormai consolidata sui giornali prevede che, in occasioni di eclatanti  episodi di cronaca, accanto alla descrizione del fattaccio ci sia anche lo spazio per l’intervista a uno scrittore del posto. Un disgraziato minaccia i vicini barricato in una casa di Padova e sentiamo l’opinione dello scrittore di Padova, un altro disgraziato decide di compiere chissà quale delitto a Firenze e sentiamo la necessità di sentire lo scrittore di Firenze. A che titolo? La stessa aria o la stessa acqua del rubinetto, l’indirizzo di residenza o l’atto di nascita permettono realmente di comprendere meglio la cronaca nera locale? Quando i fatti si sviluppano in contesti che nulla hanno a che fare con quelli frequentati dallo scrittore cosa può aggiungere l’intervista allo scrittore?

 

La risposta è evidente a tutti, eppure forse gli attribuiamo la capacità di interpretare il genius loci e di comprendere l’anima dei luoghi, anche quella nera, o forse è semplicemente un abitudine inveterata e non si riesce a invertirla. Si comprende altrettanto bene che lo scrittore non avrebbe sempre voglia di acconsentire a quella intervista, si comprende che ha paura di essere accusato di sociologia spicciola e di inciampare nel “salutava sempre” detto dai vicini dei colpevoli che vogliono apparire pur non avendo niente da dire, perché cosa c’è da dire di un’enormità come un omicidio, ma vuoi per gentilezza, vuoi per amicizia, vuoi per un pizzico di vanità poi qualcuno acconsente sempre. Forse sarebbe bello leggere anche gli elenchi degli scrittori o dei giornalisti o degli intellettuali che si sono rifiutati di dire la loro su un delitto compiuto a pochi chilometri da casa perché non ne sapevano abbastanza, meriterebbero un riconoscimento, quantomeno di stima, ma non accade. Sarebbe brutto per chi poi, invece, ha risposto (come al solito in questi casi, il vero peccato è conoscere solo quello che esce e mai quello che non esce).

 

Per esempio, in occasione dell’omicidio di un ragazzo di 17 anni a Pescara, ho letto un’intervista alla scrittrice Donatella Di Pietrantonio che trovo molto simpatica e di cui apprezzo i libri e che, però, commentando il fatto che i due accusati dell’omicidio sarebbero andati al mare dopo il reato, dice: “Non è stato ucciso un incallito criminale, uno spacciatore storico, ma un ragazzino… Dopodiché i due presunti assassini si sono recati al loro stabilimento, a fare il bagno con la comitiva di amici. Colpisce l’indifferenza con cui sono state compiute queste azioni successive all’omicidio. Una totale mancanza di empatia e comprensione della gravità del gesto commesso”.

 

Ora, a parte che se ci aspettiamo empatia da due che fanno una cosa del genere stiamo freschi e a parte che pare che andare al mare dopo un omicidio sia più grave dell’omicidio stesso, quello che non mi convince non è tanto legato alla risposta in sé, ma a un atteggiamento che mi pare si ripeta in altre situazioni simili a questa. Non è la prima volta infatti, che, in occasione di un omicidio, ci si concentra su cosa avrebbe fatto il colpevole subito dopo il delitto, come se proseguire la vita come niente fosse significasse una doppia crudeltà e non, purtroppo, uno stupido tentativo di non lasciare tracce e depistare le future indagini.

 

Premesso che non sappiamo se siano realmente i colpevoli, ma ancor di più se lo fossero, non abbiamo imparato dalla montagna di trasmissioni tv, pagine di giornali e adesso anche ore di podcast di cronaca nera che un assassino dopo un reato deve provare a fare le stesse cose di prima per evitare di attirare l’attenzione su di sé? Probabilmente diamo così peso a ciò che accade dopo, perché il delitto ci spaventa talmente tanto che preferiamo affrontare la questione morale piuttosto che la morte.

  

Oltretutto, se proprio il pentimento è quello che ci interessa – empatia altro non è in questi casi che un modo nuovo per parlare di pentimento – ma cosa possiamo saperne? Non potevano essersi pentiti, se non già del gesto in sé, quantomeno di essersi rovinati la vita anche mentre andavano al mare? E perché la cosa dovrebbe importarci già adesso? O dovremmo pensare di poterlo sapere basandoci solo su ciò che hanno fatto dopo? “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, dice quella frase di Wittgenstein che citiamo fuori contesto e non viene mai in mente quando serve.