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il caso

La sentenza dopo la morte: Maradona non era un evasore

Giuseppe De Filippi

Il primo luglio la Cassazione ha definitivamente rigettato i ricorsi dell'agenzia fiscale nei confronti di Diego Armando Maradona per una vicenda avvenuta venticinque anni fa

Il condono fu sì tombale, ma il morto non moriva proprio e quella tomba, come in un più noto precedente, venne trovata vuota. Il morto vivente, ma non zombie, eh, era nientemeno che Diego Armando Maradona. Il persecutore di morti, scoperchiatore di tombe (e di condoni tombali), era ed è, invece, il fisco italiano, che costringe ad aggiornare il triste adagio sulle uniche sicurezze: restano le tasse, ma diventa aleatoria la morte. Tanto da diventare, quella inaspettata aleatorietà, un’arma per i brillanti avvocati cui era stata affidata la difesa delle tesi difensive di Maradona davanti alla giustizia tributaria.

Il collegio difensivo ha avuto buon gioco a non comunicare negli atti del ricorso l’avvenuto decesso del suo cliente, perché, come si legge nei motivi della decisione finale “sebbene Maradona sia notoriamente deceduto, non essendo stato dichiarato dai difensori l’evento morte, non si ha (come stabilito dall’art.40 comma 2 del decreto legislativo 546/1992) interruzione del processo per cui la corte deve pronunciarsi”. Il punto dei difensori consisteva nell’ottenere in ogni modo una pronuncia perché la materia da giudicare era palesemente a favore delle tesi (già) maradoniane. Tutto nasceva da una contestazione di vecchissima data, sui periodi di imposta dal 1985 al 1990, da parte dell’allora Equitalia Sud (ente poi assorbito in Equitalia nazionale a sua volta poi transitata nell’Agenzia delle Entrate-Riscossione) per i pagamenti ricevuto da Maradona ed erogati dalla società sportiva proprietaria del Napoli calcio. Secondo l’agenzia, che in questo caso aveva buone ragioni, si trattava di redditi da lavoro dipendente e come tali da sottoporre a sostituto d’imposta con i relativi versamenti al fisco.

La parte mancante di quei versamenti, come notato dall’istituto Bruno Leoni, venne riconosciuta dalla società calcio Napoli come reale debito verso il fisco con l’adesione al condono, quello tombale che citavamo prima, e sanata con le somme richieste in sede di definizione del contenzioso. Tutto questo non bastava, però, alla Agenzia delle entrate, che avviava un nuovo procedimento, perché si poteva obiettare, in modo effettivamente un po’ capzioso, che il soggetto debitore fosse Maradona in persona e non il Napoli calcio come società. Il tutto si è trascinato in giudizio per 25 anni, arrivando a coinvolgere anche la Cassazione, fino alla decisione definitiva (favorevole al Maradona in versione zombie) presa il primo luglio, rigettando i ricorsi dell’agenzia fiscale, se non per minime parti. Resterebbe forse qualche cartella ancora dovuta, ma per somme inferiori ai mille euro e quindi prossima a sparire nel cestino grazie alle recentissime decisioni sullo smaltimento del magazzino fiscale. La vicenda parla anche ai vivi perché mostra, una volta ancora, come la notorietà dei personaggi coinvolti possa spingere a cercare occasioni per dare anche alla macchina fiscale un riflesso della fama altrui, forse anche nell’intento, discutibile, di mostrarsi intransigenti proprio con chi è famoso, per dare una lezione a tutti.