Il dossier fuffa
Il report sulla libertà di stampa in Italia dà spazio a luoghi comuni e persino a fanatici anti israeliani
Il "rapporto Ue che boccia la libertà di stampa in Italia" non esiste. Esiste uno studio dedicato allo stato dell'informazione, ma scarsamente attendibile e dai risultati piuttosto singolari. Leggere per credere
Partiamo col dire che l’Unione europea non ha “bocciato la libertà di stampa in Italia”, come scritto dal Fatto quotidiano, oppure “lanciato un allarme sull’informazione in Italia”, come denunciato da Repubblica, semplicemente perché il rapporto sbandierato ieri dai due quotidiani in realtà non è stato redatto da un’istituzione europea: insomma, non esiste. Ciò che esiste è una ricerca realizzata da un centro studi che si avvale anche del finanziamento della Commissione europea. Dire che si tratta di un “report Ue” è come dire che qualsiasi paper scritto grazie anche al contributo delle istituzioni europee sarebbe alla fine da attribuire a quest’ultime. Insomma, una boiata pazzesca, che dà già l’idea della superficialità che avvolge la vicenda. Come se ciò non bastasse, esaminando nel dettaglio il rapporto in questione, si comprende come questo si basi più su valutazioni personali che su dati fattuali, e dunque risulti caratterizzato da una scarsa attendibilità scientifica. Con alcuni passaggi a dir poco paradossali.
Facciamo un passo indietro. Il rapporto si intitola “Monitoraggio del pluralismo dell’informazione nell’era digitale” e rientra nella più ampia ricerca realizzata dal Centre for media pluralism and media freedom dell’European University Institute, con sede a Firenze. La ricerca intende dare conto dei rischi potenziali per il pluralismo dell’informazione nei 27 stati membri dell’Unione europea e anche dei paesi candidati. Per ogni paese viene realizzato un rapporto da parte di un gruppo di ricercatori e studiosi locali. Per l’Italia il dossier è stato curato dai professori Giulio Vigevani, Gianpietro Mazzoleni, Nicola Canzian e Marco Cecili.
Ciò che emerge immediatamente dalla lettura del rapporto è la debolezza sul piano scientifico della metodologia utilizzata. Ciascun gruppo di ricercatori locali si occupa di raccogliere i dati sul proprio paese attraverso un semplice questionario composto da 200 domande incentrate sui rischi per il pluralismo dei media. I quesiti, però, offrono un’ampissima discrezionalità nelle risposte. I ricercatori, inoltre, possono avvalersi di interviste e di fonti secondarie (come documenti di associazioni di categoria o di organizzazioni non governative, articoli accademici ecc.). Ne risulta un pastone, dai risultati inevitabilmente piuttosto singolari, che non riguarda soltanto la presunta “occupazione” della Rai da parte della nuova maggioranza di centrodestra (su questo si veda l’articolo di Caruso).
Pur di affermare che nel corso dell’ultimo anno la libertà di informazione in Italia è diminuita, il rapporto cita per esempio il recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza, avvenuto con il d. lgs. 188 del 2021: “Si può quindi ritenere che il decreto legislativo n. 188 sia uno strumento il cui scopo è proprio quello di limitare la comunicazione di informazioni alla comunità, con conseguenze negative sia per lo stato di diritto, sia per le vittime di reato che potrebbero ricevere supporto dalla stampa e dalla comunità, e inoltre ostacolando l’attività complessiva della stampa”, si legge nel rapporto. Ci si aspetterebbe che un’affermazione così netta si basasse su un’opera di raccolta dei dati e un approfondimento di un certo rilievo, invece la frase è semplicemente estrapolata da un articolo scritto da Marina Castellaneta, docente esperta peraltro di diritto internazionale (e non penale). E l’opinione degli altri studiosi che, invece, sostengono che il recepimento della direttiva migliorerà l’informazione giudiziaria, e soprattutto aiuterà a tutelare i diritti degli indagati? Non interessa. Evidentemente l’obiettivo era alimentare la retorica sul “bavaglio” all’informazione.
Ma il rapporto, come abbiamo detto, sembra seguire un metodo tutt’altro che scientifico. In un altro passaggio, per esempio, il report intende sostenere che in Italia i diritti fondamentali dei giornalisti corrono forti rischi nell’ambito digitale. Lo fa citando un singolo caso, quello di Karem Rohana, cittadino italo-palestinese, noto per raccontare su Instagram la situazione a Gaza. “Meta (proprietaria di Instagram) ha oscurato il suo profilo, insieme a quelli di altri attivisti palestinesi. Meta in seguito si è scusata per questo comportamento, riattivando i profili”, evidenzia il rapporto, come se Meta eseguisse gli ordini delle istituzioni italiane. Il rapporto dimentica pure di dire che i video pubblicati da Rohana (che non è un giornalista) sono spesso molto vicini all’incitazione alla violenza. L’attacco del 7 ottobre viene definito dall’attivista “un atto di libertà” compiuto dai palestinesi per “scappare da un campo di concentramento” costruito da Israele, che ha dato vita a un sistema di “apartheid” e ora sta compiendo un “genocidio”.
Insomma, il tanto decantato report sulla libertà di informazione finisce pure per dare credito ai fanatici anti israeliani.