Tutto in un'estate. Le cinque piaghe di Sicilia
Non solo siccità. Rifiuti, incendi, collegamenti fatiscenti e cenere dell’Etna. Mancano solo le locuste
Le altissime colonne di lava gorgheggiano sull’Etna inquieto, modificando le rotte degli aerei; i terreni ingialliti, scavati dalla siccità, spaventano quanto e più della cenere che viene giù dal vulcano; i canadair si alzano in volo per stemperare le fiamme dell’entroterra, appiccate dallo scirocco alla poca vegetazione rimasta; i poveri automobilisti si arrovellano in coda, disegnando scie luminose lungo l’autostrada che si affaccia a strapiombo sul mare (avete presente Taormina?). Anche nel suo volto peggiore, la Sicilia riluce di immagini e sensazioni. Di paure ed emozioni. Strane, drammatiche. In linea con le fatiche del tempo e la stanchezza della sua gente. Pericolosamente in contrasto con la richiesta d’aiuto che si leva dall’Isola; con l’abbondanza delle sue terre, delle sue colture e della sua storia; con l’incanto reale dei suoi borghi e dei suoi palazzi, che attirano comunque centinaia di migliaia di presenze.
Eppure, viene giù tutto. Tutto in un’estate: sembra il titolo di un film d’azione, come Tutto in una notte, anno 1985, quando la splendida Michelle Pfeiffer, con la regia di John Landis, trascinava il povero Jeff Goldblum, insonne e depresso dalla vita, in uno spericolato e spettacolare contrabbando di gioielli. Non c’era bisogno, però, di tanta adrenalina. La Sicilia è sempre stata arida di normalità. Sembra che su questa povera terra fiammeggiata dal sole e ammorbata dai rifiuti, che i turisti provano a scansare alla ricerca delle bellezze senza tempo, si siano riversate le piaghe d’Egitto. Un castigo divino, forse, per l’inefficacia della sua classe dirigente, che ha consacrato al gattopardismo, rivelato dal principe Tomasi di Lampedusa, il proprio metodo d’azione e di governo. Ci mancano solo le locuste, che nel libro dell’Apocalisse rappresentano le forze demoniache, simbolo di malvagità e distruzione, “a cui fu dato un potere simile a quello degli scorpioni sulla terra”. Ci manca questo flagello – delle cavallette avide di tutto ciò che gli si pone di fronte – e poi i siciliani potranno dire di averle viste davvero tutte.
Dal cielo, oltre ai lapilli dell’Etna, piove disperazione. Non c’è una goccia d’acqua capace di ristorare i campi rimasti incolti. E persino il bestiame – altro brutale parallelismo con la Bibbia – è sacrificato sull’altare dell’emergenza. Il settore della zootecnia è fra i più sofferenti per la mancanza d’acqua. Le bestie scampate alla brucellosi, che da queste parti è un fenomeno sempre più insidioso, finiscono macellate. Gli allevatori devono scegliere di salvare le più produttive e oltre a razionare l’acqua devono razionare pure gli animali. Un tormento che si porteranno dietro per sempre. Ma bisogna adattarsi in fretta per non finire in rovina. Il governo della Regione li ha ristorati, si fa per dire, con una ventina di milioni per l’acquisto del fieno, ma le misure adottate dalla politica, modeste e contingentate, finora non hanno influito sulla loro ripresa.
Il settore della zootecnia è fra i più sofferenti per la mancanza d’acqua. Le bestie scampate alla brucellosi, sempre più insidiosa, finiscono macellate
La siccità non è un’emergenza vera e propria, semmai è un problema senza tempo. Riesploso in maniera selvaggia e indomabile questa primavera, quando nell’Isola ha smesso di piovere. I calcoli più nefasti stimano perdite per quasi tre miliardi di euro, raccolti più che dimezzati (dal 50 al 75 per cento) rispetto alle stagioni precedenti e contromisure che si fermano a pochi dettagli: come lo stato d’emergenza nazionale, grazie al quale la Protezione civile ha stanziato una ventina di milioni, briciole in pratica, con cui la Regione sta cercando di scavare nuovi pozzi o riattivare i vecchi. E poi c’è l’acqua che si perde nelle condotte colabrodo prima di arrivare al mare, gli invasi prosciugati dalla presenza dei detriti, i laghi che lentamente si svuotano (anche se il bacino naturale di Pergusa è stato riportato parzialmente in vita dagli ultimi acquazzoni estivi). E i dissalatori che non funzionano dal 2014, ridotti ridotti a un ammasso di ferraglie inutilizzabili. Una serie di immagini scolpite sulla pietra. Fotografie di un reportage di guerra in bianco e nero, senza spargimenti di sangue, ma con un filo conduttore: il declino della natura e dell’uomo.
E’ accaduto che intere contrade di determinate province, specie Caltanissetta, rimanessero senza il “prezioso liquido” per oltre un mese; che i nuovi viaggi della speranza fossero quelli di una nave cisterna prestata dalla Marina militare, perché irrorasse d’acqua – con un carico da 1.200 metri cubi – la rete idrica dell’Agrigentino, dopo essere attraccata a Licata. Ma costava troppo – cinquantamila euro a spedizione e 43 euro al metro cubo – e il servizio è stato immediatamente sospeso. E’ capitato pure che gli agricoltori del Trapanese dovessero rimanere in coda tutta la notte, insonni e umiliati, per accedere a un poco d’acqua pubblica, e che tuttavia non ce la facessero a riempire neppure un bidone perché era terminata. Le autobotti, in proporzione, costano più delle mascherine FFP2 ai tempi del Covid: questo è il termometro della crisi, che finisce per dividere l’umanità fra sciacalli e poveracci, con questi ultimi in netta maggioranza. La terra è talmente arsa e il sole talmente forte da far cominciare la vendemmia in anticipo, con la raccolta dei primi grappoli già maturi di Chardonnay. Ma non basterebbe la riedizione inversa delle nozze di Cana, con la trasformazione del vino in acqua, a far passare la paura. Qualche temporale estivo, tuttavia, lascia un barlume di speranza almeno agli agricoltori.
Avessero avuto occasione di concentrarsi solo sulla siccità, forse il governatore Schifani e il suo esecutivo l’avrebbero spuntata. Ma i fronti aperti sono molteplici, tutti gravissimi. Un’altra piaga inestirpabile, e assai poco propensa a fornire immagini di bellezza e di candore, è quella dei rifiuti. Fino all’arrivo del prossimo influencer, il problema faticherà a varcare le soglie di una regione dove per il conferimento all’estero si arrivano a pagare 400 euro a tonnellata, e le navi fanno su e giù dalla Danimarca nell’indifferenza più pacifica. Non ci sono discariche, pubbliche o private, che non siano sature; né impianti di recupero e smaltimento; tanto meno termovalorizzatori (anche se un paio, prima o poi, dovrebbero vedere la luce). L’olezzo e il ciarpame dei rifiuti portano con sé il business più spietato e gli affari più controversi.
Palermo è l’ombelico del disastro dell’immondizia. Ma c’è un mondo intorno: le campagne del Siracusano, le discariche nel Messinese
La monnezza non concede sconti: si appropria indistintamente della quotidianità dei palermitani e delle vacanze dei turisti; ruba l’occhio peggio della Cattedrale, dei Quattro Canti o della Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni; non si estingue dietro un intervento straordinario della municipalizzata di turno, perché trova sempre nuove fessure in cui infiltrarsi. E’ immanente e permanente, e, nell’assenza di cultura e di politica, brulica col suo sapore rancido e coloniale. Palermo è l’ombelico di un disastro acclarato, come lo era Napoli prima dell’intervento dell’esercito. Ma c’è un tutto un mondo intorno: i sacchetti mestamente abbandonati ai bordi delle palizzate, lungo le campagne del Siracusano; gli incendi e i tentativi di sabotaggio che investono le discariche di Bellolampo e Mazzarrà Sant’Andrea, nel Messinese, che di recente hanno ricevuto la visita della Commissione parlamentare ecomafie; le lacune delle società pubbliche, come quella del comune di Palermo, che dovrebbero gestire e arginare il fenomeno, ma si ritrovano senza risorse economiche e umane. Finirà che il servizio di raccolta e conferimento – anche questo – verrà delegato ai privati in cambio di laute ricompense e di un know how più evoluto.
Cioè quello che servirebbe alle immense truppe degli operai forestali (ce ne sono circa 17 mila) per spegnere il fuoco. Ma l’organico è così da anni e non viene indetto un concorso per ringiovanirlo; la campagna anti-incendio boschiva, nonostante un avvio più precoce (a metà maggio), conta su strumenti vetusti e inefficaci. Il fuoco, che Vulcano usava per creare i fulmini di Giove e le armi degli dei, per la Sicilia è diventato uno spauracchio estivo. Una parola che a sentirla pronunciare incute terrore. Non è energia pura, ma resa costante e inesorabile; non è un elemento sacro, ma sacrificale. E’ il naturale antefatto di un paesaggio sempre più desertificato. Nel 2023, in Sicilia, sono bruciati 60 mila ettari di macchia mediterranea, per un fabbisogno complessivo di un miliardo di euro (soldi che quasi mai si trovano). E la cosa peggiore, come sottolineato qualche settimana fa dall’associazione Fenice Verde, è che “non è solo questione di clima ma di gestione del territorio, di intervento e soprattutto di mancanza di prevenzione”. A gravare sul bilancio di una mappa sempre più “rossa”, sono anche la speculazione edilizia e i conflitti d’interesse sull’utilizzo del suolo, oltre che gli atti deliberati di vandalismo da parte dei piromani.
Fra i tormenti a cui la Sicilia proprio non riesce a porre rimedio – oltre all’acqua, alla spazzatura, agli incendi – c’è quello delle strade e dei collegamenti. Una questione eterna che neppure i miliardi di Salvini, e la promessa del Ponte sullo Stretto, riusciranno a cancellare. Nel gruppo Facebook “A18 e A20 le Autostrade siciliane della Vergogna”, c’è una foto meravigliosa, scattata a inizio luglio, che riprende un codone di auto nei pressi di Taormina. Una immensa scia luminosa che si affaccia sulla penombra della sera e sul mare piatto. In questa immagine la perla della Jonio, con la sua corsia unica, diventa il simbolo di un calvario esasperante. Di un controesodo domenicale che ha la sapidità della disfatta. Non va molto meglio nei budelli dell’autostrada più importante, la centralissima Palermo-Catania. Né sul versante ionico: da qualche giorno è stata annunciata la riapertura del viadotto Ritiro, che versava in condizioni pietose da una dozzina d’anni. Inoltre è stato rimosso il cantiere sulla Catania-Messina, nei pressi di Letojanni, a nove anni di distanza dalla frana che aveva inghiottito la galleria, impedendone l’attraversamento. Ne è stata costruita una artificiale. La fine dei lavori è stata vissuta come una liberazione, ma dando un’occhiata qua e là, in giro per l’Isola, lo “zio” di Johnny Stecchino non aveva tutti i torti. “Troppe macchine, è un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici, famiglia contro famiglia” diceva a uno smarrito Benigni, che si apprestava al suo debutto da sosia sventurato.
A guardare il traffico sulla centralissima Palermo-Catania, viene da pensare che lo “zio” di Johnny Stecchino non si sbagliava
Nella pellicola-capolavoro del ‘91 Paolo Bonacelli, fantastica la sua interpretazione, si soffermava anche sul vulcano che ogni tanto fa i capricci. A distanza di trent’anni, i capricci sono diventati frequenti, e gli sbuffi dell’Etna – spettacolari finché si vuole – lasciano il segno: comportano sempre più spesso la chiusura dei cieli sopra Catania, cioè il maggior aeroporto dell’Isola (oltre 1 milione e 200 mila passeggeri solo a luglio); e quasi sempre la dispersione delle ceneri vulcaniche nei paesini ai piedi della montagna, da Acireale a Giarre. Per rimuoverli ci vuole una quantità di denaro non indifferente, e si invocano anche in questo caso “stati d’emergenza”: nell’ultima manovra approvata dall’Assemblea regionale siciliana, una decina di giorni fa, è stato assegnato un milione di contributo straordinario ai Comuni vittime degli eventi parossistici che sono impegnati nella raccolta del pulviscolo. Può capitare in qualsiasi momento, e a chiunque, che un volo in partenza da Fontanarossa, venga smistato a tre o quattro ore di distanza – a Palermo o Trapani – provocando la furia dei passeggeri. E riportando alla memoria le immagini di un anno fa, quando un cortocircuito proveniente da un autonoleggio fece esplodere un incendio e impose venti giorni di stop alle attività dell’aeroscalo intitolato a Vincenzo Bellini, con disguidi indicibili (per i trasferimenti in bus), proteste furibonde (mancava pure l’acqua delle bottigliette) e responsabilità mai venute a galla fino in fondo.
La politica siciliana assiste a questo spettacolo – della natura e dell’uomo – con la nonchalance di chi non ha niente da temere e nulla da perdere
La politica siciliana assiste a questo spettacolo – della natura e dell’uomo – con la nonchalance di chi non ha niente da temere e nulla da perdere. Si comporta come ha sempre fatto: cioè inseguendo le emergenze e assegnando un valore estrinseco all’agenda delle priorità. Trascinando nella sede dell’Assemblea regionale la cosiddetta sagra delle mance. “Anche al parlamento nazionale – si è giustificato il governatore Schifani a Repubblica – ci sono quote affidate ai gruppi, tanto che è stato coniato il termine di legge mancia. E’ un sistema che non nasce in Sicilia”. Assieme agli interventi cuciti su misura per le scocciature di stagione come la siccità, l’Ars ha ricavato 73 milioni (perfettamente suddivisi fra i settanta parlamentari: 950 mila euro a quelli di maggioranza, 650 mila a quelli d’opposizione) per interventi di varia natura: più vicini ai collegi elettorali che ai territori; più orientati alle feste e alla leggerezza; più inclini al rattoppo piuttosto che alla cura. Ha seminato contributi a pioggia per i pagnottisti, anziché elaborare veri piani d’investimento. Ha consegnato più mance ai clienti che speranze ai siciliani. Una piaga in più, d’altronde, non fa alcuna differenza.