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Il bel paese in cantiere: l'Italia che verrà vista dal laboratorio Monfalcone

Antonio Pascale

Demografia e immigrazione, crescita e lavoro: indagine sui temi che determineranno il futuro del paese partendo da un luogo di incroci e di industria, di innovazione tecnologica e culturale. Dove gli stranieri sono una risorsa, anche se l’integrazione non è un pranzo di gala

In Italia c’è un luogo dove finisce il clima mediterraneo e inizia quello continentale, dove il pomodoro cede terreno al cavolo e alla patata, dove le lingue dell’est e quelle dell’ovest si incrociano. Un luogo dove partono i bastimenti per terre assai lontane, per citare la nota “Santa Lucia luntana”, nel senso che qui i bastimenti vengono costruiti e varati, anche se queste navi assomigliano poco a quelle che nei primi del Novecento portavano i sogni delle persone nelle Americhe. Qui c’è uno dei più belli (anche se non è l’aggettivo giusto) sacrari militari, quello che con un’architettura dolente conserva la memoria di poveri contadini che spesso senza capire nemmeno gli ordini sono andati a morire per difendere la linea dell’Isonzo, il fiume della Patria. Patria che i contadini nemmeno conoscevano, vista la povertà, il diffuso analfabetismo e il modus vivendi a Km0, nel senso che di certo quei contadini non praticavano turismo, tantomeno viaggiavano durante i fine settimana per andare a vedere le bellezze dell’Italia. 

Ma pochi chilometri più avanti c’è il cimitero militare austro-ungarico, e difatti una delle caratteristiche di questo luogo è che mio nonno, classe maledetta (1899), partendo da Piedimonte Matese ha combattuto sul Carso senza le scarpe adatte. Si congelò tre dita dei piedi che gli furono amputate, ma molti nonni di chi vive qui hanno combattuto sul fronte opposto, erano i nostri nemici di allora: ora giacciono tutti lungo la statale 305. Ma che dire: alla fine dei conti, considerata le sofferenze e i vari stress post traumatici, niente di nuovo sul fronte occidentale. 

Tuttavia, è un luogo poco raccontato, visto che le cronache politiche sono concentrate sulla capitale e i reportage si dedicano al sud, che poi se è maledetto o benedetto dipende dagli anni. Per non palare di quel certo esotismo che ancora si avverte nelle narrazioni dei luoghi lontani. Questo luogo presenta alcune anomalie statistiche molto interessanti. Dal mio punto di vista altro non è che una proiezione dell’Italia che vedremo da qui a qualche anno. Azzardo un avverbio: la vedremo matematicamente, nel senso che accadrà, nonostante tutto, nonostante le insopportabili dichiarazioni politiche imparate e declamate a memoria come nelle peggiori recite scolastiche, che sentiamo sciorinate sui tg. Accadrà, a prescindere dalle politiche economiche, dai cali o dalle lente risalite del pil, dal traino o meno della Germania. 

Questo luogo è un laboratorio. Qui si studiano sia i confini, appunto tra il pomodoro e il cavolo, sia gli incroci, sociali, culturali e politici, non necessariamente in questo ordine. Gli esperimenti di laboratorio possono essere sorprendenti o andare male, ma un fatto è certo, si vedono, li possiamo analizzare, come dire, il laboratorio è una lente di ingrandimento, inquadra in piccolo quello che poi accadrà in grande. Con un po’ di impegno magari gli effetti dell’esperimento si possono prevedere e controllare. Quindi per il bene della Patria, per capire cosa succede negli incroci, per eliminare la tendenza al sovranismo e al protezionismo che fa guai  e porta benefici solo al politico di turno, è molto importante lasciare perdere le cronache (spesso marziane) della capitale, i luoghi esotici, quelli dimenticati dagli dèi, quelli con il mare più bello ma sfortunatamente soggetti ad abusivismo coatto, insomma, dimenticare tutto questo e concentrarsi su Monfalcone, un luogo solo geograficamente di confine, ma simbolicamente al centro dell’Italia, più di Rieti (che dovrebbe essere il centro dell’Italia). 

La prima cosa che accadrà in Italia, quella, la potete già vedere a Monfalcone: riguarda il tasso di fertilità. L’abbiamo letta vero l’intervista a Francesco Maria Chelli, neo presidente dell’Istat? Dice quello che si ripete da anni: “Al primo gennaio del 2023, l’ultimo dato che abbiamo, eravamo circa 59 milioni. Nel 2050 saremo 54,8.  Le previsioni demografiche, per noi statistici – aggiunge – hanno una solidità formidabile. Non sono previsioni economiche. Succederà. Oltretutto questa perdita non sarà equilibrata: la struttura della nostra società già oggi non ha più la forma di una piramide quanto piuttosto di un grande fungo. E la parte più consistente del fungo è quella dei baby boomer. Adesso hanno sessant’anni, cosa accadrà quando ne avranno 80?”. 

La demografia è la grande domanda. Più importante di chi siamo, da dove veniamo. Ma incredibilmente non entra nel dibattuto pubblico, cosa spaventosa, perché l’età delle persone, la composizione anagrafica di una società, più che quella di censo, determina la qualità della democrazia e a cascata di tutte le attività che su questa si appoggiano, dalle assicurazioni allo sport. Ma noi niente, preferiamo commentare le ultime uscite social del ministro delle Infrastrutture o l’imperativo categorico del giorno enunciato dall’opposizione. 

Appena arrivati a Monfalcone cambiate aria. Per prima cosa, osservando le persone, come una visione, ecco che vi apparirà il fantasma demografico: qui su circa 800 bambini nati un po’ meno della metà sono stranieri, in maggioranza di nazionalità bengalese (su 829 nuovi nati, 364 sono stranieri di cui 175 bengalesi).

A proposito di fungo, nel senso della forma della società italiana, a Monfalcone la maggioranza delle persone è come me, nella fascia di età che va dai 50 ai 60, dunque una fascia destinata, matematicamente, non solo a  invecchiare ma a vivere oltre gli 85 anni (chissà se stiamo aggiungendo vita agli anni o più semplicemente anni alla vita). Dunque, anche solo passeggiando sotto i lecci e osservando le persone che camminano o stazionano ai bar di piazza della Repubblica (una piazza senza panchine, per volere della ex sindaca leghista Anna Maria Cisint, ma ci arriviamo) possiamo vedere, senza sfera di cristallo, il futuro dell’Italia: un paese di anziani che hanno generato figli che ora hanno di 50/60 anni che hanno generato due figli che però non fanno più figli, e molti bambini non italiani. Basta un giro a Monfalcone per porre in evidenza le questioni cruciali che dovremmo affrontare: pensioni, lavoro, rapporto con gli immigrati, conflitti e soluzioni di compromesso, innovazione tecnologica e culturale. 

A proposito di immigrazione a Monfalcone un terzo della popolazione arriva dal Bangladesh, ma ci arriviamo. Per ora basta sottolineare che Monfalcone è sempre stata una città di immigrati, il flusso ha avuto diverse fonti, intese come luoghi di provenienza, tutto è dipeso dal lavoro richiesto dai cantieri navali. Il complesso industriale (che occupa un’area di quasi 80 ettari, pari a circa 80 campi di calcio: quasi impossibile se non si è esperti capire il flusso di lavoro) dopo la sua acquisizione da parte dell’Iri nel corso degli anni Trenta, ha modificato diverse volte la propria ragione sociale, ma è sempre rimasto un’azienda a capitale pubblico (all’interno dell’Itc assieme agli stabilimenti di Genova e Castellammare di Stabia, tra il 1966  al 1984, poi a seguito di un periodo di crisi è stato raggruppato in un’unica società pubblica, Fincantieri). 

Comunque la storia parte nel 1907, quando il governo austro-ungarico approvò forme di contribuzione per lo sviluppo della propria industria navalmeccanica e la famiglia Cosulich decise di costruire qui il cantiere navale. All’epoca Monfalcone non era altro che un borgo rurale di contadini e pescatori. Nella scelta furono fondamentali le infrastrutture già esistenti (la Ferrovia meridionale e il canale navigabile Valentinis, alimentato con l’acqua dolce del canale De Dottori, ideale per la conservazione delle carene nelle navi in allestimento), ma soprattutto la possibilità di reclutare a giornata manodopera contadina a basso costo, a differenza di quanto avveniva nel Triestino dove l’alta specializzazione degli operai richiedeva un aumento dei trattamenti salariali. 

I cantieri hanno formato la città, anche urbanisticamente. Una company town, la definisce Paolo Fragiacomo nel suo libro, La grande fabbrica, la piccola città. Tanto che ancora oggi il cantiere rappresenta il polo industriale principale della provincia di Gorizia e il fulcro dell’economia locale. Fatto sta che nei decenni, a seconda delle esigenze in tempo di pace, guerra e guerra fredda, nei cantieri si è costruito di tutto, navi militari e sommergibili, navi cisterna (dopo la chiusura nel 1967 del canale di Suez) fino alle attuali navi da crociera (la prima, la Crown Princess, è stata  varata nel 1990), e di volta in volta a Monfalcone sono arrivati operai a basso costo, napoletani, siciliani, poi dopo la caduta del Muro si sono presentati operai dell’est e infine i bengalesi. 

Ma un buon riassunto delle risorse umane che negli anni hanno lavorato ai cantieri lo scrisse qualche anno (nel 2018) fa il Piccolo: “Delle 5.500 risorse umane, metà sono italiani, e il restante 50 per cento è rappresentativo di 67 nazionalità. La classifica vede il Bangladesh al secondo posto, mentre il terzo posto è appannaggio dei rumeni; al quarto posto gli operai croati, il resto, calcolato in 715 lavoratori, pari al 13 per cento, è distribuito tra le altre 64 nazionalità straniere. Tra queste, si considerano paesi d’origine come Slovenia, Bosnia, Serbia, Afghanistan, Algeria, Austria, Belgio, Bolivia, Capo Verde, Colombia, Cuba, Ecuador, Etiopia, Gambia, Ghana, India, Liberia, Marocco, Moldova, Pakistan, Polonia, Regno Unito, Senegal, Sudan, Togo, Ucraina”.

Questo è lo stato dell’arte del laboratorio. Come è stato affrontato il problema in questi ultimi anni? A parte che non è proprio un grattacapo, anzi ce ne fossero di problemi così. Consideriamo per esempio il tasso di criminalità: qui è molto basso. Un ex poliziotto in pensione che ho incontrato aveva tutta l’aria di essersi annoiato durante gli anni di servizio, altro che Napoli (da dove veniva), altro che centro Italia, qui poca droga, pochi episodi di violenza – ci sono altre cose che andrebbero conteggiate e che riguardano la non proprio limpida gestione degli appalti, ma anche qui, ci arriviamo. 

I bengalesi, che fanno lavori molto duri – sono un po’ dei contorsionisti, piegati al limite della sopportazione muscolare negli antri degli scafi in lavorazione – hanno portato qui la famiglia. Cosa buona e giusta: voglio dire, una procedura che abbassa molto il tasso di criminalità. Nel suo libro Il declino della violenza, Steven Pinker, ricostruendo la pacificazione del selvaggio West, ricorda che il West smise di essere selvaggio quando arrivarono le donne. Che come prima cosa misero su famiglia, e gli uomini si calmarono. C’è anche la canzone di Jonny Cash I Walk the Line, dove si dice “Because you’re mine, I walk the line”, che tradotto in napoletano potrebbe suonare così: per te ho messo ‘a capa a fa’ bene, cioè ho messo la testa a posto. E tuttavia questa grande e numerosa comunità bengalese si è trovata in questi ultimi anni in difficoltà: l’ex sindaca leghista Cisint le ha reso la vita difficile.

Prima ha rimosso le panchine nella piazza principale perché erano usate dagli immigrati (la conseguenza più visibile è la piazza vuota), poi ha tentato di limitare il numero di bambini stranieri nelle scuole, poi ha eliminato il cricket dal festival sportivo e il cricket è uno sport popolarissimo tra i bengalesi, poi nell’estate del 2023 prima ha vietato alle donne musulmane di indossare il burkini in spiaggia (che poi ci  sono alcune donne con burkini che attraversano la strada, ma si capisce e lo dicono gli stessi bengalesi, sono persone che vengono dall’interno del Bangladesh, meno moderne insomma) e infine, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, a novembre 2023 ha imposto il divieto di preghiere. Con la scusa che i luoghi di incontro violerebbero le norme urbanistiche: cioè, i locali erano destinati all’uso commerciale e non al culto. 

Quest’ultima misura ha causato una manifestazione: circa 8.000 persone hanno protestato contro il divieto – in fondo, dicono i diretti interessati, questi luoghi non erano solo luoghi di preghiera, ma anche di incontro. Dove altro dobbiamo vederci e fare comunità? Sulle panchine in piazza non si può stare, il cricket non si può giocare, pregare non si può, dove dobbiamo stare? Io sono ateo ma non ho mai pensato che i fedeli non debbano pregare, tanto tutti, pure gli atei pregano, noi atei confabuliamo o meditiamo. E poi gli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione garantiscono a tutte le confessioni la libertà di culto. 

Ma poi alla fine questi bengalesi solo in fabbrica devono stare? Anche se Cisint ha dichiarato all’Observer: “Non ho detto non dovete pregare, è che lo spazio veniva utilizzato in modo distorto: era diventata una moschea. Devono rispettare le leggi”. Che poi prese di posizione siffatte si possono leggere come posizionamento politico. Difatti nel caso della Cisint ha funzionato: è diventata eurodeputata. Ha scritto anche un libro:  Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione, dove racconta la sua battaglia così sintetizzata nel comunicato stampa: “Al centro di furiose polemiche per aver voluto applicare la legge italiana nella gestione dei luoghi di culto della sua città, Anna Maria Cisint negli ultimi mesi, vittima di vere e proprie mistificazioni giornalistiche e campagne di fake-news, è costretta a vivere sotto scorta a seguito delle minacce di morte ricevute da parte di estremisti islamici”.

Fatto sta che ora i bengalesi li vedi sotto i cipressi dell’ex cimitero che giocano a cricket o lungo il canale che per ironia della sorte la stessa sindaca ha rimesso a nuovo (le si riconosce una buona gestione del restyling della città). Oppure percorrono le piste ciclabili, visto che si muovono in maggioranza in bici e i più intraprendenti in monopattino: li vedi e non li vedi, lavorano ma sono invisibili. Per ora lavorano quasi solo gli uomini, le donne stanno a casa, fanno la spesa, badano ai bambini, ma la situazione sta cambiando e cambierà, certo che cambierà.

Un giovane bengalese che ora ha aperto un ristorante tradizionale mi ha detto che suo padre, arrivato in Italia sul finire degli anni Ottanta, lavorava a Roma, ai semafori. Poi passò a percorrere la spiaggia di Ostia, su e giù, con tutta la roba da vendere addosso, finché una bagnante romana in vena di buoni consigli gli disse: ma perché non provi ad andare a Monfalcone? Ai cantieri navali i bengalesi ci sono arrivati non per caso ma portati da alcune ditte che prendevano lavori in subappalto. Comunque quel bengalese ha ascoltato il consiglio della bagnante romana e ha cominciato a lavorare ai cantieri. Che ve lo dico a fare, lavori molti duri, poi la palla è passata al figlio, e anche nel suo caso lavoro duro. 

Tuttavia proprio per arginare la durezza e dare un senso, nonché un investimento alla sua fatica quotidiana, ha deciso di aprire una ditta individuale, nel senso che con la partita Iva avrebbe gestito dei lavori passati da un contoterzista che a sua volta aveva un appalto ai cantieri. Detto fatto, è partito con quattro operai ma dopo un anno ne contava 120. Solo che, fatti i conti, il giovane bengalese si trovava o in affanno o in debito, doveva pagare il fornitore dell’appalto. Che probabilmente doveva pagare a sua volta un altro fornitore. Una specie di catena di sant’Antonio che vede quelli del piano di sotto, i contoterzisti e operai guadagnare molto meno (poi una parte dei soldi vanno in Bangladesh, un’altra parte al fornitore d’opera). Il nostro giovane imprenditore ha deciso, così, seduta stante, di non lavorare più per i cantieri e ha aperto il ristorante che – dice – sta cominciando ad andare bene, “comunque in fabbrica non ci torno”. 

Certo colpisce molto la determinazione di alcuni giovani bengalesi, vengono da lontano, da uno stato che fino agli anni Settanta era molto povero, con un indice di fertilità alto, sei/sette figli per donna, ma sta crescendo tantissimo, è più ricco, più educato, più in salute e le donne fanno meno figli, intorno a 1,98 a testa (dati 2021). Colpisce che sono giovani e cazzuti, mentre noi stiamo invecchiando. Certo, si possono capire quindi anziane e anziani che escono e non riconoscono più la città, si chiedono ma chi sono questi che giocano a cricket sotto i cipressi dell’ex cimitero? In Italia mica è così differente: difficile trovare tra gli immigrati persone che non abbiano subito traumi nel lungo viaggio, ma è facile trovare tra di loro persone con molta più determinazione e coraggio e predisposizione al rischio  rispetto a una popolazione di 45/50enni, cioè l’età media degli italiani, più propensi invece a tirare i remi in barca e a godersi il tempo libero visitando i classici bei borghi italiani (pensate al giovane ristoratore che nel giro di un anno ha fondato una ditta che contava 120 operai e poi messo alle strette ha chiuso tutto e aperto un ristorante).

Sono movimenti demografici ma anche di desideri di ambizioni, di forza e di disponibilità energetica, che andrebbero valutati. Invece, almeno in questi ultimi anni si sono combattuti limitando gli spazi pubblici per i bengalesi, togliendo le panchine, con la speranza che spariscano, almeno dal centro, non certo dai cantieri.

L’ipotesi che i bengalesi o i romeni – insomma lo straniero – finiscano per rubare il lavoro agli italiani e quindi andrebbero fermati al di là del Piave ogni tanto fa capolino (un po’ come sostiene la leggenda del Piave: non passa lo straniero). Si dice: ci sono tanti lavoratori che abitano nelle zone limitrofe che potrebbero lavorare alla Fincantieri. Si dice così in giro, ma Roberto Antonelli, presidente di Ascom di Monfalcone (gestisce un sexy shop niente male, frequentato – dice – anche da qualcuno della comunità bengalese: evviva), mi fa subito i conti della serva, calcoli a cui io tengo molto: se venissero a lavorare quelli delle zone vicine, a parte che non vogliono farlo, l’economia di Monfalcone ne patirebbe. Diciamo che servirebbero 2.000 persone per lavorare ai cantieri, che arriverebbero da un territorio vasto (50 chilometri da Monfalcone). Questi lavoratori prenderebbero la macchina per arrivare fin qui, partirebbero alle sei, arriverebbero giusto per timbrare l’entrata, nemmeno un caffè si prenderebbero, poi una volta usciti, subito a casa. Invece la comunità bengalese qui ha acquistato appartamenti, ha aperto locali, frequenta locali, muove l’economia, e tutti ne traggono qualche vantaggio. Vuoi i conti della serva? Sono 212 gli appartamenti venduti agli stranieri nel 2022. Più precisamente, il mercato degli acquisti si divide in un 25 per cento comprato dai bengalesi e un 14 per cento dai romeni, il 57 per cento dagli italiani e il restante 4 per cento conteggiato sotto la voce altro. Il totale degli acquisti degli stranieri che hanno passato il Piave ammonta a 22 milioni di euro (con circa 800 mila euro di provvigioni andate alle agenzie immobiliari): niente male per una piccola città bastardo posto. Poi andrebbero considerati gli affitti. Vediamo, circa 1.500 appartamenti affittati a 500 euro e sono altri 9 milioni. Poi ancora i negozi, 80 locali commerciali a circa 600 euro (ma mi tengo basso – mi dice) e arriviamo a mezzo milione. E la spesa? La spesa di tutti i giorni la vogliamo calcolare? Circa 3 euro al giorno per 8.500 stranieri (di cui 600 bengalesi sono cittadini italiani, ci sono già dei nonni) e portiamo in cassa oltre 9 milioni di euro. Aggiungiamo che molti di loro hanno la patente e fanno benzina. Per non parlare delle utenze, arriviamo a 46 milioni di euro. Bene, dove sono questi soldi? Abbiamo bisogno di calma e di inclusione, quindi politiche di dialogo (cultura, sport e bisogna affrontare pure le problematiche femminili). 

Che poi mentre Roberto parlava, siccome stavamo nel suo sexy shop, mi sono ricordato di un film porno degli anni Ottanta ambientato in un condominio, ogni piano ospitava persone di nazionalità diversa, c’erano francesi, italiani, americani, indiani, afroamericani ecc. e nella scena finale tutti andavano all’ultimo piano, a casa di un condomino che naturalmente non si spaventa dell’etnia, anzi dice: prego entrate, avanti c’è posto. C’è questa mescolanza utopica e potente di etnie diverse ma accomunate dal medesimo desiderio di love and peace. Che va bene, non è facile, ma forse se si investe su un mondo che cambia e non al contrario si contrasta il mondo che cambia, poi le persone si ritrovano assieme, anche perché conviene stare insieme.

Ps. A proposito di mondo che cambia, anche Fincantieri sta cambiando molto. Come? Innovando. Pensate che tutto il processo di saldatura viene controllato da un drone che segue l’intero profilo di saldatura e scatta fotografie dettagliatissime, quindi un algoritmo sviluppato dall’intelligenza artificiale individua eventuali errori e li evidenzia. Tra l’altro per alcune fasi del processo di saldatura si stanno sperimentando saldatori automatici nonché esoscheletri per alleggerire il lavoro degli operai. E’ possibile poi solo indossando un caschetto entrare in quella che si chiama mixed reality, cioè osservare sia quanto fatto finora, cioè il materiale montato, sia il risultato finale (in formato virtuale). Sembra una cosa da videogioco e invece grazie a questa sovrapposizione tecnologica tra reale e virtuale si può verificare che tutto sia stato montato correttamente, risparmiando tempo ed evitando errori. Una nave da crociera è struttura immensa, in genere più di trecento metri, ci vogliono tre anni di lavoro, quindi quando prendi una commessa ti assicuri molti anni di lavoro. Una catena di lavoro, tra l’altro, che passa dall’operario semplice a quello specializzato, dall’informatico al realizzatore di software, all’ingegnere. Fincantieri sta tentando, di innovazione in innovazione, di passare dal concetto di manodopera a quello di testa d’opera che è un po’ come dire, la manodopera artigianale si salverà solo con l’innovazione, e speriamo che anche il pensiero di sinistra venga toccato dalla luce dell’innovazione, o meglio riesca a conservare l’analisi della società e di protezione del mondo del lavoro distaccandosi dalle vecchie e abitudinarie e per alcuni care pratiche novecentesche. Comunque, deve passare per il confine e sentire il fascino e le complicazioni degli incroci. Deve passare per Monfalcone, come tutti, del resto.

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