pregiudizi sballati
L'alluvione è colpa del boom? Se cambia il clima si cambi anche il territorio, senza lagne
Prendere atto del cambiamento climatico e del territorio, senza rinnegare la vita e la ricchezza che ci ha dato, è possibile. Basta mettere da parte ideologie antisviluppiste che sembrano rimpiangere l'epoca della fame e della pellagra. Se cambia il clima si cambi anche il territorio, senza lagne
La tragedia dell’alluvione e la minaccia del cambiamento climatico (lasciando da parte l’orrore superfluo chiamato politica) sono con evidenza collegati. C’è un terzo incomodo che fa tracimare i due, e qui la politica qualcosa c’entra – anche se a ben guardare è sempre stata superflua: nella Grande Pianura se la sono cavata benone anche senza il “dirigismo cinese in salsa emiliana” – ed è il tumultuoso, sregolato sviluppo economico e urbanistico, arginatore e irrigimentatore di fiumi e territori che da almeno 60-70 anni ha trasformato tutto, e non solo in Emilia-Romagna. Ora quello sviluppo industriale e abitativo è messo da molti sotto accusa come la vera causa, spesso con eccesso di retorica.
Che sia concausa, è chiaro. Ma una piccola riflessione contraria si può fare. Tra gli argomentatori c’è ovviamente Mario Tozzi, il divulgatore col martello, che una volta in più passa dal puntare la piccozza contro la “irreversibilità dei fenomeni” ad accusare “soprattutto lo scempio ambientale che è stato messo in campo”. Colpa degli umani “inebetiti dalla religione dei capannoni e degli stabilimenti”. Si è costruito troppo, e invece “i fiumi devono essere lasciati liberi di esondare… operazione che si può fare a patto di evitare di costruire dappertutto”.
È stato il boom economico. Ma l’alternativa al boom era rimanere in pochi, e possibilmente poveri. Epperò in Emilia-Romagna, diciamo almeno da fine Ottocento a ieri, hanno deciso di starci in tanti, di essere ricchi e persino felicemente sazi e disperati, come diceva quello. Ed è stato, per tutti, un bene. Le aree golenali che ora Tozzi accusa di non funzionare più per molto tempo hanno funzionato bene e hanno permesso a generazioni di umani di mangiare, anche grazie al macello intensivo di generazioni di animali. L’alternativa era la fame del Polesine, da cui si scappava e non solo per l’alluvione. Oggi non funziona più? C’è il climate change? Bene, si cambi e persino si abbandonino i luoghi divenuti inospitali, ma senza per questo anelare al ritorno alla pellagra. E tenendo conto che i primi a non essere convinti sono i sindaci locali. Che mesi fa hanno criticato il Piano speciale preliminare per la ricostruzione del generale Figliuolo che poneva restrizioni non solo all’edilizia privata ma anche a quella pubblica e di impresa: “Riteniamo le misure estremamente penalizzanti per lo sviluppo economico e sociale delle comunità coinvolte”. Accusare ciò che ha garantito il benessere è assurdo. Dice Tozzi che non si possono costruire invasi troppo grandi “se si tiene al paesaggio”. Ma anche il paesaggio può cambiare.
Lo sfruttamento umano può causare danni, soprattutto quando non c’erano conoscenze e le priorità tra paesaggio e lo stomaco erano chiare. Le pianure dell’Egitto erano fertili granai, poi evidentemente è subentrato un cambiamento climatico che ha costretto ad abbandonare il deserto. Daremo la colpa ai faraoni (e ai loro schiavi) per aver sfruttato quelle terre finché hanno potuto, e per averci lasciato la possibilità di fare oggi del magnifico overtourism ad Assuan, dove nel frattempo un cambiamento indotto dall’uomo ha trasformato in un lago quel che era un deserto? Il cambiamento climatico costringerà a rivedere economie, modi di vita, persino ad abbandonare alcune aree (lo dice pure Figliuolo). Il Fatto ci informa che anche in Italia ci sono 42 mila “migranti climatici”. Forse andrebbero distinti dagli sfollati provvisori, ma se il clima cambia, cambiano anche i territori. E per adesso grazie alla terra, che ci ha dato tanto.