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Misteri in fondo al mare, dal Bayesian al cacciatorpediniere Mohawk
La Marina militare sorveglia il relitto del superyacht di Mike Lynch in attesa che tutti i suoi segreti tornino a galla. Ottantatré anni fa, altri coraggiosi sommozzatori italiani compirono una impresa delicata e misteriosa nelle acque più basse ma molto più rischiose della costa tunisina
Forzieri in fondo al mare stipati di segreti che a volte fanno più gola dei dobloni di opulenti galeoni sommersi. Se la Storia non si ripete, certe storie rimandano ad altre. Vecchie vicende di guerra riaffiorano alla memoria mentre le cronache raccontano di una cassaforte sul superyacht Bayesian, colato a picco (forse) per una tempesta tra Palermo e Cefalù il 19 agosto scorso. Sette persone sono morte nel naufragio tra cui il magnate britannico Mike Lynch, il quale aveva collaborato con diversi servizi di intelligence e serbava preziose informazioni negli hardware che portava sempre con sé, anche nella fatale crociera siciliana. Quei materiali sarebbero ancora nei fondali di Porticello, da dove i subacquei del Comsubin hanno finora ripescato, pare, solo alcuni smartphone e dispositivi elettronici di bordo. Ottantatré anni fa, altri coraggiosi sommozzatori italiani compirono una impresa delicata e misteriosa nelle acque più basse ma molto più rischiose della costa tunisina. Anche allora lo scrigno era un’imbarcazione che batteva bandiera britannica: il cacciatorpediniere Mohawk.
Oggi s’aggirano attorno al Bayesian, già dichiarato “inaffondabile” con sfigatissimo aggettivo vantato pure dal Titanic, parecchi squali che la vigilanza della Marina militare italiana tiene lontani, mentre è in corso l’inchiesta giudiziaria e alcuni dubitano che gli errori dell’equipaggio o la violenza dei venti siano le cause del disastro. Nemmeno pare sufficiente a spiegarlo la superficialità del giovane marinaio di vedetta quella notte, che scorgendo la tempesta avvicinarsi per prima cosa la filmò su Instagram con le note di Thunderstruck degli AC/DC. Il ragazzo non sarebbe stato degno dell’equipaggio del Narciso di Conrad, che governò la nave “scossa con furia come un giocattolo nelle mani di un pazzo”, tuttavia secondo i primi testimoni nessuna manifesta leggerezza fu commessa sul natante di Lynch. Né chi ipotizza spiegazioni alternative può essere già smentito.
Il magnate Mike Lynch portava sempre con sé hardware con preziose informazioni. Materiali che sarebbero ancora nei fondali di Porticello
Nelle acque del Mediterraneo infinite battaglie si sono combattute. Centinaia di navi (con migliaia di uomini) sono finite in fondo al mare: cannoneggiate, silurate, bombardate. Rarissimi i casi in cui dai resti di un naviglio siano stati riportati a galla segreti come quelli che il Bayesian si sospetta contenere, sicché una impresa come fu il ripescaggio dei documenti dal Mohawk fu destinata prima all’assoluto silenzio militare, poi al racconto mitizzato e per sua natura impreciso, infine a una versione consegnata alla Storia ma con definitive zone d’ombra.
La fine del Bayesian s’ascrive al tempo delle guerre ibride che si consumano senza medaglie né bandiere. Senza fiamme. Più si fa sofisticata la tecnologia marittima più eventuali nemici risultano impalpabili. C’è un verbo inglese, to spoof (farsi beffe, raggirare, ingannare), impiegato solo da una decina d’anni nell’accezione che indica una interferenza maggiore o minore sui Gps, come l’impazzimento del giroscopio sullo yacht di Lynch potrebbe far supporre. Con lo spoofing si possono localizzare fintamente imbarcazioni a centinaia di miglia da dove si trovano (accadde per esempio a giugno del 2017 per una ventina di navi nel Mar Nero). Già nel 2013 un “Gps spoofing device” della grandezza di una valigetta, realizzato dal team del professor Todd Humphreys dell’Università del Texas, mandò fuori rotta un natante privato da 80 milioni di dollari che navigava dal Principato di Monaco verso la Grecia. Le potenti antenne abboccarono ai falsi segnali. “Non immaginavo, finché non abbiamo attuato questo esperimento, quanto fosse difficile rilevare un attacco del genere”, dichiarò Humphreys.
Oltre l’80 per cento dei casi di incidenti informatici marittimi a partire dal 2001 ha una matrice russa, cinese, nordcoreana o iraniana
Il 28 luglio precedente all’affondamento del Bayesian, il Financial Times titolò “Cyber attacks on shipping rise amid geopolitical tensions”, rilanciando uno studio della olandese Stenden University of Applied Sciences che ha calcolato in 64 almeno gli incidenti informatici marittimi nel 2023 (contro tre del 2013 e zero del 2003). Oltre l’80 per cento dei casi di cui si è individuata la matrice a partire dal 2001 è di origine russa, cinese, nordcoreana o iraniana. Vi s’aggiungono gli attacchi ransomware di criminali che estorcono denaro alle compagnie di navigazione. Secondo il quotidiano inglese, “un’industria che ha fronteggiato per secoli minacce alla sicurezza fisica è dolorosamente impreparata rispetto alla pirateria online”. Per l’avvocato Tom Walters, specializzato nella materia, “la crescente digitalizzazione delle navi così come l’uso dei dispositivi internet, solo da poco reso possibile su vasta scala in mare grazie ai satelliti a orbita terrestre bassa, ha creato nuove opportunità per gli attacchi informatici”.
Un analogo senso di angoscia tecnologica dovette provare la flotta italiana nella Seconda guerra mondiale, constatando che le tenebre del Mediterraneo non avevano più segreti per la Royal Navy grazie all’impiego dei radar. Lo accertò forse per la prima volta il campione dei crittografi della Regia Marina, Eliso Porta, in occasione del disastro di Capo Matapan, quando un’intera divisione navale fu annientata dagli inglesi nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1941. Un mese dopo proprio Porta, capitano di corvetta e responsabile della sezione Beta/1 dedicata alle intercettazioni tattiche, si rese protagonista di un successo che magari qualcuno agognerebbe ripetere con gli hardware del Bayesian.
Nel ’41 l’operazione “Pesca di beneficenza”, “esfiltrazione” dal relitto del britannico Mohawk dei libri con i codici della Mediterranean Fleet
L’operazione, ricordata come “Pesca di beneficenza”, si svolse tra la fine di aprile e la prima metà di luglio 1941 nel più ovvio segreto. Cominciò a trapelarne notizia solo nel 1948 e numerosi dettagli emersero negli anni cinquanta, dando anche ispirazione a un film reperibile su YouTube: Mizar, diretto da Francesco De Robertis (già ufficiale di Marina), che si rifece a vicende realmente accadute pure per la pellicola Uomini ombra in cui narrava le imprese del Sis, il Servizio informazioni segrete di Lungotevere delle Navi. La “Pesca di beneficenza” consistette nella “esfiltrazione”, dal relitto del Mohawk, dei libri con i codici della Mediterranean Fleet, rimasti a bordo perché il rapido affondamento del cacciatorpediniere non ne aveva consentito, secondo prassi, la distruzione. Che si potesse tentare l’impresa, gravida di pericoli, fu da subito convinzione di Porta, il quale ne persuase il suo superiore Mario De Monte e il capo di Stato Maggiore ammiraglio Arturo Riccardi. La guerra contro gli inglesi non fu spietata solo sul mare: fu anche un duello tra macchine cifranti e decifranti, tra intercettazioni di messaggi radio genuini e fasulli in una sfida che contemplò i mezzi più biechi. Non è stata mai fatta chiarezza sul decesso per blocco renale, a trentasei anni, del predecessore di Eliso Porta: il tenente di vascello Giorgio Verità Poeta era un genio della decrittazione e morì pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Qualche occulto ma straordinario merito dovette averlo se gli fu conferita alla memoria, nel febbraio del ‘40, la medaglia d’oro per “lavori utili alla Regia Marina” (qualche anno fa i suoi discendenti hanno ottenuto la riesumazione della salma, su cui sono state rilevate tracce di piombo, arsenico e antimonio. Medicinali? Veleno?).
Il Mohawk fu affondato nella battaglia del 16 aprile 1941, quando un convoglio di navi italiane e tedesche diretto da Napoli in Libia venne attaccato di notte da quattro cacciatorpediniere inglesi presso le secche tunisine di Kerkennah. La Regia Marina perse tre navi da guerra più i piroscafi mercantili scortati con uno spaventoso bilancio di vittime, stimate in circa milleottocento. Prima di finire a picco, il cacciatorpediniere Luca Tarigo riuscì a silurare il Mohawk. Il rapporto stilato dal comandante J. W. Eaton, consultabile nei “War Despatches” britannici, conferma la fretta con cui l’equipaggio abbandonò la nave che s’inabissava ed elogiò “lo spirito” dei marinai, che si tuffarono ordinatamente in acqua o si pigiarono su sei zattere gonfiabili prima di essere tirati a bordo dei cacciatorpediniere Jervis e Nubian.
Undici giorni dopo Eliso Porta, con due sommozzatori della X Flottiglia Mas, salpa da Lampedusa sul motoveliero Fiammetta che li conduce alle secche delle isole Kerkennah. Impressionante lo spettacolo descritto dall’ufficiale in un memoir pubblicato solo postumo dall’Ufficio storico della Marina militare, nel 2013: “Il mare era ancora cosparso di detriti, di morti e… di pescicani. Qualche nave, essendo andata in secco, emergeva con il suo triste carico di cadaveri: neppure i predoni arabi avevano avuto il coraggio di andare a saccheggiare quei miseri resti”. Finalmente, dalla punta di un’asta di legno che sporgeva di mezzo metro sull’acqua, riconobbero il Mohawk reclinato sulla fiancata sinistra a poca distanza dal relitto del Luca Tarigo. Le immersioni furono compiute con l’incubo dei frequenti sorvoli degli aerei inglesi, ma “si recuperarono documenti di molto interesse”. Bisognava tornare con più calma, sicché il 20 giugno riparte da Trapani un peschereccio per la seconda spedizione: imbarca Porta, quattro sommozzatori, un palombaro esperto in recuperi sottomarini e un radiotelegrafista. Duplice è l’espediente per ingannare i ricognitori nemici: il comandante e i subacquei s’appoggiano a una zattera di salvataggio su cui si stendono a ogni transito degli aerei fingendosi morti, confusi tra i tantissimi della carneficina d’aprile che ancora i pesci non hanno mangiato; il peschereccio invece inalbera bandiera francese (comprata all’uopo a Roma in un negozio di via del Tritone) e l’equipaggio cuce sui berretti il “pompon rouge” caratteristico dei marinai d’oltralpe. Con sfrontato sangue freddo, quando avvistano gli aerei della Raf, gli uomini si sbracciano persino a salutare i piloti. La “pesca” dal Mohawk prosegue fruttuosa fino al 23 giugno e il 28 Porta rientra a Roma con i documenti asciugati e ripuliti dalla nafta con un lavaggio nel cloroformio.
Succulento è il bottino: i pezzi più pregiati sono il codice per le segnalazioni di navi ausiliarie e piroscafi; il Mediterranean Station Book con le norme per la difesa dei porti e per la navigazione in formazione; le disposizioni e le frequenze del servizio radiotelegrafico; gli ordini di massima per le unità da guerra; i registri dei radiotelegrammi ricevuti e trasmessi dal Mohawk in testo chiaro, utili per la comparazione con gli stessi messaggi già decifrati dai crittoanalisti italiani.
Le condizioni operative della “Pesca”: mitragliate inglesi, attrezzature approssimative, un relitto che mise a dura prova i sommozzatori
Non si trovò purtroppo l’agognato Naval Cypher. Sarebbe stato rinvenuto solo nel 1952 da un ex sommozzatore di Eliso Porta che lavorava nella società di recuperi marittimi incaricata della rimozione del cacciatorpediniere inglese. Ripescò il cifrario da una cassetta metallica rimasta incastrata fra un portello aperto e lo scafo. Ormai cimelio per collezionisti, il Naval Cypher finì tre anni dopo nelle mani del giornalista Lino Pellegrini, già corrispondente di guerra del Popolo d’Italia, che ne scrisse in toni enfatici su L’Europeo (“confesso di sentirmi sconvolto se penso che, nel 1941, i nostri sommozzatori giunsero a pochi centimetri da quelle pagine, il cui contenuto poteva capovolgere le sorti della guerra in Mediterraneo”). Le condizioni operative della “Pesca di beneficenza” erano state proibitive per il timore delle mitragliate inglesi, per le approssimative attrezzature subacquee dell’epoca e per le condizioni del relitto, che misero a dura prova anche la tempra morale dei sommozzatori, per esempio quando uno di loro s’imbatté nella cabina di poppa in un cadavere fluttuante contro il soffitto, con braccia e gambe penzoloni sulla sua testa.
Se in prospettiva varie ipotesi sembrano aperte per il Bayesian, altrettante a consuntivo ne rimangono per la vicenda del Mohawk. Basti pensare che nessuna versione in cui è stata raccontata combacia con un’altra. Lo stesso comandante Porta accennò evasivamente a una terza immersione a Kerkennah svolta ai primi di luglio ‘41 con un Mas, un motoscafo d’assalto; scrisse di non aver trovato null’altro di importante, solo la bandiera di combattimento della nave, ma poi ammise – lo ricordò la figlia Umberta in un articolo su Gnosis del 2022 – che “molte cose” di quella spedizione “non furono conosciute neanche dall’ufficio dal quale dipendevo. Tutto ciò per motivi di segretezza, e cioè di sicurezza”. Si seppe dopo la guerra, da fonte militare inglese, che tra i documenti ritrovati c’era la mappa dei campi minati davanti al porto di Alessandria, dove il 18 dicembre 1941 sei incursori della X Mas su tre “maiali” (i siluri a lenta corsa) procurarono alla Mediterranean Fleet più danni di quanti ne avesse mai sofferto negli scontri sul mare.