Lo skyline di Milano visto dalla terrazza panoramica del grattacielo Pirelli (Ansa/Andrea Fasani) 

Milano la brutta litigiosa

Maurizio Crippa

La città del riformismo ben temperato, la città che sapeva mettere al centro le scelte condivise, è diventata un cattivo specchio dell’Italia: due parti politiche estremizzate, ideologiche  e incattivite. Esempi di un guaio

La milanesità non si acquisisce per nascita e neanche perché ci si vive, bisogna lavorarci per un tot di anni. E allora lascia dei segni noti agli antropologi: una lieve fluorescenza, un certo tono di voce, un ritmo di pensieri, un odore misto di vaniglia e di officina, che si assorbe inesorabilmente lavorandoci”. Per una volta il bergamasco divisivo, il gran polemista, uno che se c’è da far incazzare fa incazzare pure i ciclisti, aveva usato parole soffici, profumate. Parole di un vecchio milanese adottivo per niente morbido, ma che conosce l’essenza di Milano, la sua caratura dialogante. Peccato che quella città al gusto misto di vaniglia e di officina, di gente che la sera va alla Scala e di gente che la sera prende il tram per tornare nei quartieri lontani, le periferie che furono l’ossessione mancata di Beppe Sala, non esista più. La città del centrosinistra o del centrodestra, basta che funzioni, per cicli lunghi e senza isterie. Milano è diventata una città litigiosa, profumi pesanti e sapori acidi. Città da acchiappacitrulli costosa uno sproposito. Tranquilli, non stiamo parlando di dolciumi e di food e nemmeno di stipendi rapportati al metro quadro. Il tema è la politica. Per una volta zuccherato, quello di Vittorio Feltri era un breve scritto d’occasione per celebrare la rinascita di un antico dolce popolare e perfettamente ambrosiano: fatto con quel che restava in casa quando non si buttava via niente. Un dolce di riciclo e riuso che si chiamava “carsenza”, emblema della Milano paziente e che piaceva anche al liberal-riformista Don Lisander.

   
Fine della poesia. Ora la politica. Milano è una metropoli tascabile che negli ultimi anni ha perso il suo caratteristico Dna di riformismo ben temperato, bipartisan quando ancora non andava di moda dirlo, si è buttata sulle opposte posizioni estreme lasciando in mezzo un vuoto (non v’azzardate a pensare “al centro”, il centro qui non c’entra). E in questa tendenza all’estremizzazione incapace di confronto e dialogo è diventata, suo malgrado e per sua colpa, il vero specchio dell’Italia. Ma dell’Italia peggiore: quella che vediamo insultarsi in Parlamento come al bar e rinfacciarsi zecche e fascismi sui giornali. Un’Italia che, dati elettorali alla mano, tende regolarmente a premiare le posizioni meno concilianti, più conflittuali.

  
Andiamo per gradi. Finito l’effetto Expo, 2015 e dintorni, tutti i grandi dossier della città sono diventati temi di divisione e litigio. Lo spartiacque psicologico è stato il Covid, ma l’indebolimento politico covava da prima. Ad esempio lo stadio. Dopo cinque anni di rissa inconcludente si è tornati al punto di partenza. Per cinque anni la città si è divisa come al derby, ma con un aspetto significativo: nessuno ha mai riconosciuto il diritto e le idee dell’altro. I club di qua, le barricate dei No a tutto di là. Il punto di interesse ed equilibrio, il comune, stretto nel mezzo. Qualche giorno fa Beppe Sala ha attaccato duramente “l’opportunismo politico da parte di alcuni” e ha ribadito il punto su cui Milano non è stata capace di mediare: “L’interesse pubblico deve fare i conti con la sostenibilità economica degli operatori”.

 

L’interesse pubblico, i conti in ordine: in un posto come Milano dovrebbero stare nel mezzo. Ora Milano è sotto schiaffo per le inchieste edilizie che, facendo leva su una questione interpretativa per la quale non c’è alcun accordo, stanno spaccando la città e incrinando il rapporto bilanciato tra politica e magistratura.

 

Quell’equilibrio che era stato ben gestito nella stagione di Edmondo Bruti Liberati dal 2010 al 2015, e aveva in sostanza tenuto in quella di Francesco Greco. Un noto avvocato di Milano in un incontro tra professionisti ha commentato: “Se si facesse un referendum oggi a Milano vincerebbe la procura”. E un operatore dell’edilizia ha confessato al Foglio: “C’è un malcontento sociale  che viene prima delle inchieste, ma ne è stato la spinta”. Un possibile cambiamento che invece diventa scontro. A ben guardare, l’ultima operazione importante a Milano in cui si è applicato un metodo dialogante  – l’interesse della città in primis – e un accordo tra visioni diverse è stata Arexpo (non a caso è una società privata a maggioranza pubblica), che dopo Expo ha gestito la trasformazione dell’intero sito, una delle più grandi rigenerazioni europee, e ha portato alla nascita di MIND, il Milano Innovation District. Adesso persino sul Piano casa appena abbozzato dall’amministrazione e che dovrebbe affrontare la vera svolta strutturale di Milano, l’edilizia sociale, si profilano tensioni (tra sviluppatori e mondo cooperativo, tra posizioni partitiche divergenti) che non sarà facile gestire. Sullo sfondo il rumoreggiare sordo, però molto in favore di grancassa mediatica, dei comitati civici per i quali ogni intervento è furto, ogni accordo tra privati e pubblico una malversazione. Per tacere l’aspetto più grave, identitario, di una città che non riconosce più sé stessa: la vicenda della Comunità ebraica, una colonna storica della società civile milanese, fattasi drammatica dopo il 7 ottobre. Beppe Sala ha ribadito un mese fa nella Sinagoga della Guastalla che “Liliana Segre è la nostra guida”. Eppure le hanno sfregiato il murales, un cinema rifiuta il documentario su di lei e i Giovani democratici del Pd inneggiano ai palestinesi, nel silenzio litigioso degli adulti del partito.

  
Sono soltanto esempi di un problema più profondo e politico, forse antropologico, “fluorescenze” preoccupanti come direbbe Feltri. Milano sembra avere smarrito la sua proverbiale natura di città bonvesiniana capace di valorizzare le diversità e di convogliarle in una pratica di buon governo che tiene conto di tutti i fattori. Una città abituata da sempre, a parte il buco nero degli anni di Mani pulite – non a caso il populismo giudiziario è tornato a soffiare, con le tifoserie accalcate sugli spalti delle inchieste sulle Olimpiadi, sulle società di calcio, gli “spioni” – a non buttare il lavoro degli altri. Che era tipica degli anni del boom, delle amministrazioni di sinistra. Un sociologo acuto come Marino Livolsi l’aveva descritto in un libro, “Il riformismo mancato: Milano e l’Italia dal dopoguerra a Tangentopoli”, raccontando una stagione “nella quale le giunte di sinistra tentarono seriamente di avviare un vero percorso di riforme”. E’ stato così negli anni di Gabriele Albertini, capace di far convergere su progetti  che hanno posto le basi del rilancio milanese. Lo stesso si può dire del mandato di Giuliano Pisapia. Da una parte c’era un centrodestra che a Milano è sempre stato moderato. C’era il doppiopetto protettivo di Berlusconi, i problemi a destra si risolvevano al caminetto di Arcore. Anche su Pisapia, che scalzò Letizia Moratti, Berlusconi tenne l’equilibro. Del resto quell’operazione di cambio radicale ma morbido fu creata da Piero Bassetti, come dire il riformismo ambrosiano e progressista in persona. Pietro Bussolati, oggi consigliere regionale e già segretario metropolitano del Pd nell’èra Pisapia e del primo Sala, ha raccontato al Foglio: “Penso che il concetto di ‘modello Milano’ sia stato esemplificato per la prima volta dopo le devastazioni dei no Expo in città”. Quella volta una manifestazione guidata da Pisapia e promossa dal Pd raccolse tutti i milanesi per ripulire le devastazioni dei black bloc.

 

“Ecco, quello era il modello Milano”. Un baricentro di riformismo pragmatico che per vent’anni ha tenuto. Oggi il doppiopetto sorridente del Cavaliere non c’è più, si sente a destra ma anche a sinistra. Il centrodestra è diventato rissoso e spampanato, la vicenda del candidato sindaco  alle elezioni del 2021, a furia di folli veti incrociati, fu grottesca e desolante. Persino uno dei protagonisti di allora, Matteo Salvini, ha dichiarato che non bisogna farlo mai più. Ora è soprattutto FdI a premere per il bastone del comando, o più che altro è la rete di relazioni e familistica di Ignazio La Russa a comandare il gioco. Ma al di là di questo non si legge una strategia che possa aggregare la città: e a Milano “strategia” significa piano di sviluppo, investimenti, raccordo con l’Europa, hub della conoscenza. Non certo (solo) le caselle da mettere a posto nelle amministrazioni. Il comportamento tenuto per mesi dal governo Meloni, e della Lega in particolare, sul “Salva Milano” – forse per l’assurdo retropensiero che fosse una buona idea fare uno sgarbo a Beppe Sala – spiega molto di una difficoltà di pensare con logiche di sistema. Non sono chiari quali siano gli interlocutori di questa destra: gli immobiliaristi? Non si direbbe. Le università? Non ci sono segnali. Il grande business della Sanità regionale? Oggi sembra più un grande problema. Forse il popolo incazzato per le ciclabili e la sicurezza.

  

E’ significativo che nelle scorse settimane sia stato Alfredo Mantovano a venire in città per aprire canali di interlocuzione con il mondo finanziario, universitario e dello sviluppo. In fondo l’ultima operazione di politica di sistema tentata dal centrodestra fu la candidatura di Stefano Parisi nel 2016. Nove anni fa. Da allora una opposizione soprattutto mediatica e tutta giocata sui temi della sicurezza, dell’immigrazione (di cui Milano ha un grande bisogno) ma niente visioni di sviluppo. Si avvicina Sant’Ambrogio, e tocca ricordare che alla Prima alla Scala un anno fa era scoppiato il caso farlocco del “loggionista antifa” che aveva gridato “viva l’Italia antifascista” ed era stato identificato della Digos. Un eccesso di zelo che non era della destra milanese, casomai governativa, ma nel luogo simbolo della città descrive bene il clima. Capiterà anche quest’anno, dopo che sulla nomina del nuovo direttore musicale Fortunato Ortombina si è giocata l’ennesima rissa sulla colorazione politica del decisore, col governo interessato a mettere in difficoltà Sala?

  
Svolta a sinistra, obbligata. L’effetto del Sala 1 – frutto di competizione e primarie, di un voto popolare compatto – è svaporato. La sinistra ha cambiato o strada (scelta ovviamente legittima) abbandonando la visione riformista della città che dall’Expo morattiana, alle buone pratiche di Pisapia e al liberal-riformismo che allora dominava il Partito democratico offriva una prospettiva precisa, di continuità. Già col secondo mandato del sindaco, costretto a gestire una coalizione più sbilanciata a sinistra e con l’improvvida scelta di candidarsi con una lista Europa Verde, per meglio distanziarsi dal Pd, le cose erano cambiate. Poi vennero le tensioni sociali, dai costi della vita all’edilizia; la rumorosa retorica, ma molto vellicata, dei Fridays for Future; la grana Meazza; la città di quindici minuti come risposta smart a una città che iniziava a chiedere altro e che dall’elettorato di destra è sempre stata attaccata come una inutile forzatura. Maggioranza schierata, poco disposta a interloquire con l’opposizione.

 
Ma soprattutto l’erosione della generazione riformista, che pure sulla carta avrebbe ancora in mano un po’ del Pd. Con l’influenza di personalità di spicco, ora traslocate in Europa, come Giorgio Gori, Irene Tinagli, Pierfrancesco Maran. A Milano la vicesindaco Anna Scavuzzo viene dallo scoutismo, di area riformista è il vicesindaco della Città metropolitana Francesco Vassallo e viene dalla nidiata dei giovani riformisti dem il capo di gabinetto di Sala, Filippo Barberis. Ma è cambiato il mood, il pallino è in mano ad altri. Il segretario metropolitano del Pd, Alessandro Capelli, pura scuderia Schlein, è uno per il quale il “modello Milano” è finito e bisogna andare oltre. Dal tema abitativo all’acceleratore sempre pigiato sui diritti al posizionamento sulle questioni internazionali, la linea non la fanno i (pur sempre giovani) riformisti cresciuti negli anni del Circolo del Pd “02PD”, gli anni del renzismo (ora una bestemmia) e che portarono alla vittoria di Sala. La generazione di Pietro Bussolati e Lia Quartapelle ora parlamentare. Da un lato c’è un gioco nazionale che la segreteria di Elly Schlein sta conducendo senza sconti, e che incide sulla linea milanese, per tradizione invece molto autonoma, ma conta molto anche un cambiamento di visione, e la pressione di una base giovanile molto più vicina alle tematiche verdi e di sinistra critica anti occidentale che al riformismo moderato di rito ambrosiano. Quello spirito liberale ha sempre trovato un suo punto di equilibrio rilevante in città. “Ma la cosa grave per Milano”, ci dice un esperto conoscitore delle realtà politiche ed economiche cittadine, “è che questa new wave targata Schlein non sembra avere i numeri di telefono giusti sull’agenda, non conoscono gli indirizzi in cui si decidono le politiche di lungo termine. Il Pd milanese è ancora in grado di dire la sua sulle scelte delle grandi partecipate?”. Frequentano i circoli, danno priorità alle politiche dei diritti e identitarie, ma i rapporti con i corpi intermedi si sono indeboliti, persino il sindacato scalpita oppure pretende di dare la linea.

 
Si potrebbe chiamarlo un “effetto bradisismo”, questo scollamento delle due parti politiche da una visione condivisa della città. Una città in cui conta molto il ruolo delle fondazioni, che sorreggono gran parte delle politiche di welfare e sviluppo, e saranno protagoniste della svolta immobiliare esercitando quasi un ruolo di supplenza alle mancanze della progettazione politica. Le banche, ovviamente, e la finanza. Pesano – fortunatamente tanto – le università, che stanno trasformando Milano in una “capitale della conoscenza”. Recente è la nascita della Tech Europe Foundation (TEF), alla quale partecipano Politecnico, Bocconi, il fondo FSI e il gruppo finanziario Ion: un progetto ambizioso (fondazione no profit) per creare a Milano uno dei principali hub di start up tecnologiche d’Europa. Il sottosegretario Mantovano è venuto a Milano a conoscere da vicino questa realtà, per il resto la politica era lontana. Milano guarda all’Europa, la politica milanese invece si specchia nella cattiva litigiosità nazionale e ha smarrito il suo vecchio stile.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"