Una luce dietro il rischio
L'azzardo di Ottavia Piana. Una lezione sul coraggio che serve nel fallimento
Quante maldicenze contro la speleologa intrappolata. Ma il suo azzardo nell'esplorare l'ignoto serve quassù in superficie per affrontare lo scherno delle sconfitte, contro ogni coro dolente e insinuante
C’è una frase che spiega il senso delle avventure estreme, della voglia di esplorazione (di sé, del mondo, di un’idea). La pronunciò il grande alpinista George Mallory, precursore delle spedizioni oltre gli ottomila, in risposta alla domanda “perché scalare l’Everest?”. Disse: “Perché è lì”. Sono quelle che il New York Times ha indicato come le tre parole più importanti dell’alpinismo. Oggettivando l’essenza dell’avventura, togliendo se stesso dal palcoscenico, Mallory spiegò con sintesi mirabile il senso di una missione. Non disse “perché ci sono io”, né “perché è il mio sogno”. No, diede la responsabilità e il merito alla montagna.
La brutta avventura della speleologa Ottavia Piana, rimasta prigioniera per quasi quattro giorni dopo una caduta mentre esplorava un ramo ignoto dell’Abisso Bueno Fonteno, ha avuto il suo lieto fine. Non altrettanto le polemiche che partono dagli interrogativi oziosi su una necessaria utilità pratica degli sport estremi. Ora che Piana è sana e salva e che sappiamo tutti cosa era andata a fare lì sotto – ricerche, esplorazioni, mappature, cose che servono a sfamare chi ancora si nutre di conoscenza – le parole di Mallory, che l’Everest lo conquistò nel 1924 insieme con Andrew Irvine e che lassù morì, suonano come una bella lezione anche fuori dall’ambito dell’avventura geografica, della scommessa umana. Perché ci insegnano a non assorbire pregi che non sono nostri, a restare sempre altri rispetto a quello che ci circonda: il migliore punto di vista sulle cose non è appropriarsene, ma girarci attorno, osservarle, studiarle e lasciarle lì dove sono.
La nostra abitudine social a entrare nel panorama dice molto di noi stessi, dell’insopportabile superficialità con la quale pretendiamo di farci monumento, di raccontarci con l’arte altrui, di strappare la bellezza dal quadro per farne un gadget da salotto. L’azzardo di Ottavia Piana fa parte di una visione rispettosa dell’azzardo stesso perché il coraggio di esplorare l’ignoto non serve lì sotto, nel buio assoluto e nel freddo lancinante, ma quassù in superficie per resistere allo scherno del fallimento. E a chi cerca un’utilità di tutto ciò è difficile rispondere, come è difficile donare sensibilità, impiantare curiosità. Non è sempre stato così.
Quando il primo agosto del 1914 la goletta Endurance salpò da Londra alla volta del continente antartico per una missione senza precedenti (l’attraversamento via terra di quella distesa ghiacciata da est a ovest), il capitano Sir Ernest Shackleton non pensava ai detrattori e agli antenati degli odiatori appollaiati sul ramo della maldicenza. A differenza di tutti loro, che non avevano timore di mostrarsi saccenti nel criticarlo, Shackleton sapeva come aver paura. Quando anni prima aveva dovuto rinunciare a una missione estrema, aveva ordinato il rientro con una giustificazione che era tutto l’opposto di una visione eroica e superomistica: “Better a live donkey than a dead lion” (meglio un asino vivo che un leone morto). L’Endurance era costruita con il legno più resistente al mondo.
Eppure finì intrappolata nei ghiacci del mare di Weddell colando a picco. L’avventura, raccontata in un bel libro di Alfred Lansing, si concluse due anni dopo, il 30 agosto 1916 dopo un’incredibile concatenazione di colpi di scena, di fughe disperate su scialuppe in balia di onde gelide alte 25 metri, di notti all’addiaccio, di solitudine buia e di tanto tanto coraggio. Shackleton non centrò mai il suo obiettivo, ma riuscì in un’impresa ancora più difficile: non perdere neanche uno dei suoi uomini. Probabilmente se fosse morto sarebbe finito nell’Olimpo degli eroi ma lui, uomo di pasta dura, preferì cavarsela. Non gliene fregava niente di quell’Olimpo, gli interessava onorare la responsabilità nei confronti dell’equipaggio. Scrisse sul suo diario, nei giorni più difficili: “Il rammarico non sta tanto nel dover morire, ma nel fatto che nessuno saprà mai quanto vicini siamo stati a salvarci”. Non è il caso neanche di immaginare cosa gli avrebbero vomitato addosso i social di oggi: del resto il mondo è sempre stato diviso tra divanisti e avventuristi, ma a quel tempo i polpastrelli non erano ancora stati sperimentati come arma impropria e impropriamente vigliacca.
Anche quella di Ottavia Piana è una sconfitta vittoriosa giacché il primo obiettivo di chi sa affrontare l’estremo è quello di portare a casa la pelle. Coro dolente e insinuante: non poteva starsene a casa sua? Quanto ci costa salvarla? Ora chi paga? Le domande che incrostano una timeline dopo l’altra presuppongono una visione meritocratica del diritto al soccorso: sono attualissime, sotto una montagna come in mezzo al mare. E soprattutto prevedono un limite pragmatico alla dotazione di curiosità. Attenzione, qui non stiamo parlando di tiktoker che camminano in bilico sul cornicione di un grattacielo o di certi estremi del parkour, ma di speleologi esperti con obiettivi di ricerca chiari e prefissati. Esplorare consapevoli dei pericoli che si corrono è il massimo che un esploratore può concedersi. Il rischio della scelta – nello sport, nell’arte, nella scienza – fu ben sintetizzato da Neil Simon in una frase diventata quasi un manifesto: “Se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della Cappella Sistina”. Eppure proprio questa consapevolezza è stata usata dai detrattori di Piana, additata come una che “se l’è cercata” e quindi cosa vuole questa qui? Forza, fatele pagare le spese che abbiamo cose più serie a cui pensare!
In questo contesto alcuni giornali hanno incastrato in modo non proprio corretto l’esigenza di fornire una copertura attendibile dell’evento con quella di generare engagement, titillando il peggior istinto dei migliori travisatori di realtà, ovvero i diteggiatori del web. Una delle prime dichiarazioni presunte della speleologa dolorante, con ossa rotte, incastrata tra le rocce, nel buio gelido di un anfratto sconosciuto, sarebbe stata un mai più, un rinnegare se stessa nel momento in cui serviva la massima fiducia in se stessa: “Non andrò mai più in grotta”. E così la sensazione forzata di un “pericolo cercato” è servita, in onore al principio anglosassone del “what if”, cioè “supponiamo che”, “e se”. E se fosse stata a casa avrebbe vissuto serena, non ci sarebbe costata il patrimonio che serve per una missione di salvataggio di centinaia di persone, ci saremmo occupati di cose più serie (c’è sempre una cosa più importante di cui occuparsi quando ci si devono accollare responsabilità che non portano acqua al nostro mulino). Quindi consolazione massima anche se tardiva: Ottavia Piana non andrà più in grotta perché si è pentita di averci fatto perdere tempo e soldi. E non importa se è nel gap tra ciò che accade e ciò che sarebbe potuto accadere, “what if”, che si misura l’autorevolezza dell’informazione.
Walter Bonatti, fortissimo scalatore poi votato alla divulgazione, fu un antesignano delle imprese alpinistiche ma anche delle maldicenze che si fanno shit-storm. Accusato ingiustamente di aver tradito i compagni nella storica conquista del K2 nel 1954, ci mise una vita a riequilibrare la verità, con un procedimento di puntualizzazione implacabile antesignano del moderno debunking (cioè la confutazione di notizie false). Nel suo libro “Montagne di una vita” Bonatti raccontò alcune delle sue imprese senza eroismi. E descrisse l’arte della paura. “In me è servita a stimolare il coraggio, anche quello di saper accettare la rinuncia se necessaria. Il coraggio a sua volta è un sentimento che rende l’uomo padrone della propria dignità. Coraggio, soprattutto a livello individuale, è anche volontà civile e responsabile di non rassegnarsi all’incalzante degrado morale”.
Visto dal divano, che è ambito legittimo e invidiabile fin quando non diventa alibi e armeria, tutto l’universo è fuori misura, fuori luogo, fuori di testa: del resto le grandi imprese, non solo nello sport, sono quelle che ci mostrano, evidente e spesso urticante, la differenza tra persone modeste e visioni modeste. Concetti pericolosi da sovrapporre.
Invece le cose sono molto diverse perché è quando finisce la presunzione della ragione che inizia il mondo in cui essa è orgogliosa di sentirsi superata. Qualche anno fa, da ex arrampicatore, mi invitarono in un festival a intervistare Maurizio Zanolla, più noto come Manolo, uno dei più grandi freeclimber esistenti. Davanti a una platea seduta comodamente lui raccontò la sua vita scomodissima, in verticale, il suo fatalismo, le sue paure e anche l’inevitabile scia di dolore che accompagna l’illusione della felicità assoluta. Poi nel suo libro, “Eravamo immortali”, Manolo scrisse di un mondo di folle pazienza e di razionale imprudenza, quello degli alpinisti estremi. Un mondo in cui uno ci mette vent’anni per chiudere una via di arrampicata di venti metri, un tratto di roccia talmente liscio che solo una sensibilità superiore ti può mostrare ciò che è invisibile agli occhi. Così accadde per “Eternit” nella falesia del Baule (Vette Feltrine), una via di grado 9+ (quando per gli umani ci si ferma all’8b+) che Manolo recensì così: “11 minuti, 38 secondi e 60 movimenti della mia vita”.
“Se la vanno a cercare quindi è ovvio che muoiano” o “peggio per loro”: quando si parla di alpinisti, esploratori, recordman che hanno fatto una brutta fine sono offese esplicite alla più grande magia dell’uomo, quella di saper sognare. La fantasia non è solo un tratto di penna, una nota azzeccata o un magico passo di danza, ma anche sapere guardare dentro di noi quando fuori tutto è buio, freddo, spaventoso. Magari accendere una luce che ci sopravviverà.
Le grandi imprese possono essere piccole. Ottavia Piana che cerca di mappare un antro in cui nessun essere umano ha mai messo piede, il sub che esplora un abisso ignoto, il pensionato che chiude la sua prima maratona: passi arditi che servono a prolungare le nostre vite, a reincarnarci in qualcuno che ha fatto cose che non sappiamo fare e che avremmo voluto fare. Da bambini noi maschietti volevamo essere Gianni Rivera nella mitica semifinale di Italia Germania 4-3. Da adolescenti ci vedevamo in Eddie Van Halen con la sua chitarra indiavolata. Appena maggiorenni immaginavamo di essere il Ken Follet de “La cruna dell’ago”, e magari senza timore ci vedevamo alle prese con “Die Nadel”, l’Ago, la spietata spia nazista che aveva scoperto l’inganno degli alleati prima dello sbarco in Normandia ma che non era riuscita a cambiare il corso della storia. Negli anni Ottanta diventavamo Toni Valeruz, lo scialpinista che si buttò giù dall’Eiger come se dovesse saltellare su una semplice pista nera. E via sognando.
Prima della dittatura degli algoritmi era considerato sano cercare una nuova vita nella quale immergersi per gioco, quella di un campione dello sport, di un inventore, di uno scrittore, di un musicista, di un esploratore. Anche se cadevano, anche se fallivano, anche se morivano finivano tutti lì, nel bagaglio dei nostri sogni. E nessuno chiedeva il conto a Enzo Maiorca che si schiantava contro un sub incauto durante la conquista dei 90 metri in apnea nel 1974: lo bannarono per qualche anno dalla Rai, ma per via delle bestemmie che tirò tutte d’un fiato dopo 10 minuti di iperventilazione (risultata utile solo per non risparmiare manco un santo).
Il caso di Ottavia Piana e di tutti quelli che come lei non si rassegnano alla livella della superficialità serve – o può servire – nel rivalutare un concetto caro a chi pensa che ci può essere vita oltre il tinello. E’ quello della rimodulazione, cioè la necessità umana di riorganizzare nuovi schemi, di inventarne di nuovi, di adattarsi e di costruire forme esclusive in cui rifugiarsi e trovare conforto. L’alpinista non pretende di dominare il mondo, al contrario chiede di essere ammesso al suo cospetto pagando un dazio di rischio. Lo sciatore estremo non oltraggia il pendio, al contrario si adatta a esso accarezzandolo in cerca di un verso giusto (se esiste). Nessuno di loro pensa di mettersi in pericolo, al contrario cerca un riparo in quel mondo che gli altri guardano distrattamente e loro invece ammirano, esplorano, affrontano col rispetto dovuto alle entità superiori.
Infine perdonatemi una piccola citazione personale: i momenti peggiori della mia vita, quelli in cui sono davvero stato in pericolo li ho vissuti sul ciglio di una strada, sul cemento di un marciapiede, sul letto di un ospedale da bambino. In montagna, sott’acqua, in un bosco sperduto con uno zaino, davanti a un fiume da guadare o a uno strapiombo da affrontare con gli sci mi sono sentito vivo e soddisfatto come al lavoro, in ufficio o a casa, davanti a un foglio quando le parole si sono abbracciate come speravo. Perché l’esercizio della rimodulazione è la migliore ginnastica per l’immaginazione. E perché solo grazie alla fantasia, che della rimodulazione è figlia prediletta, riusciamo a godere di quel castello incantato che salva i nostri sogni, da quando siamo bambini a quando diventiamo vecchi. Un castello che la realtà puntualmente cerca di demolire.