L'editoriale dell'elefantino
Elisabetta Vernoni è una testimonianza di cultura e civiltà che chiede un seguito e rispetto da parte di tutti
I genitori di Cecilia Sala hanno chiesto ai media un “silenzio stampa” per evitare che la giostra delle informazioni su che cosa si possa e si debba fare allunghi i tempi di una pena carceraria ingiusta e renda più difficile una soluzione
Di fronte all’abisso personale e familiare, la madre di Cecilia Sala ha saputo trattenere l’impulso dell’emozione indignata e ha scelto un registro di responsabilità. Come lei, sono un soldato: così ha detto dopo il colloquio con la presidente del Consiglio, aggiungendo di sentirsi rassicurata per quanto ha appreso degli sforzi in corso per riportare a casa sua figlia. Il senso di smarrimento, di pena e di timore per la sorte di sua figlia si è accompagnato a una seria disciplina dei comportamenti e delle parole, fatto assai raro in una cultura vittimista che scarica il barile del cuore su chiunque sia a tiro e lo sostituisce alla gravità oggettiva dei fatti. I genitori di Cecilia hanno poi deciso di praticare in proprio e di chiedere ai media un “silenzio stampa” per evitare che la giostra delle informazioni su che cosa si possa e si debba fare allunghi i tempi di una pena carceraria ingiusta e renda più difficile una soluzione. Sul modo possibile di corrispondere al loro legittimo invito si esprime con chiarezza responsabile il direttore di questo giornale. Certo sarebbe complicato e sbagliato lasciar cadere o cancellare nella caciara il significato di questo contegno esemplare di fronte ai rischi di un intrigo istituzionale internazionale di cui Cecilia Sala paga incolpevole tutto il prezzo in una miserabile cella del carcere di Evin.
La sobrietà e l’autocontrollo di Elisabetta Vernoni smentiscono le solite fole sparse sul carattere degli italiani e sulla loro tentazione innata di indulgere al piagnisteo. L’impressione è che la famiglia Sala abbia capito con prontezza e coraggio il nucleo della intera faccenda. Le complicate curvature della storia che ha portato al barbarico sequestro di una giornalista italiana, senza che le si possa rimproverare di avere fatto alcunché di illegale, si possono affrontare con un impegno istituzionale e diplomatico che non ha alternative e richiede senso dell’urgenza, determinazione, unità civile, tatto e canali riservati per attingere l’obiettivo. Il sentimento di ripulsa per il cinismo antigiuridico di un regime prepotente e la protesta contro i suoi metodi, cose che la madre di una ragazza di ventinove anni, sequestrata perché innamorata del suo mestiere e capace di farlo con competenza e senso della realtà, prova sulla propria pelle nella forma dell’ansia, dell’angoscia, si sono manifestati con un tono caldo ma sorvegliato e accanitamente razionale. Precisamente di questo temperamento ha bisogno la campagna per riportare Sala a casa e liberarla dall’ingiustizia. Ed è una madre in pena, cioè la persona più di ogni altra autorizzata a una testimonianza d’impulso, a offrire questa misura, questa distanza, questa logica. Noi siamo abituati a tutt’altro, bisogna ammetterlo. Il senso politico e civile di una circostanza che ci coinvolge direttamente non è una specialità della casa. Che Elisabetta Vernoni abbia saputo scegliere il modo giusto per alleviare nei modi possibili il senso di paura e di tremore per la sorte di sua figlia, e di sorvegliarne gli effetti con una compostezza da ammirare, è una testimonianza di cultura e di civiltà personale che chiede un seguito, un’attenzione e un rispetto da parte di tutti.