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Lo scabroso oblio

La memoria di Jean Daniélou è inchiodata alla sua morte. Ma la sua vita fu tanto di più

Gabriele Pelizzari

In questa vicenda c'è l’immaturità collettiva di un occidente alfiere d’una morale priva di etica, che assapora le molte implicazioni di un atto tanto esecrato quanto minuziosamente vagheggiato e morbosamente scrutato

"Morire in odore di santità” è formula conclusiva della biografia dei santi, solitamente – quanto inopportunamente – ricondotta al Martirio di Policarpo, vescovo di Smirne, giustiziato nel 156: mentre questi ardeva sulla pira infuocata, annota il testo, si percepì “un profumo come di incenso aromatico o di una qualche altra fragranza preziosa”. Ecco, per singolare eterogenesi dei fini, anche del cardinal Jean Daniélou non si può parlare senza partire dalla morte. Una morte scabrosa, invero, avvenuta il 20 maggio 1974, al 56 di rue Dulong, a Parigi, nella dimora di una ventiquattrenne (spogliarellista, si disse; prostituta, si è più di frequente sostenuto), m.me Gilberte “Mimì” Santoni, al cui cospetto il presule morì di infarto, cadendo in ginocchio: “Bella morte, per un cardinale, morire in ginocchio”, dirà lei, pietosamente – e inconsapevolmente – rievocando su quell’uomo illustre l’insigne tradizione della mors conspectus vitae.

 

C’è pruderie, in questa vicenda, e c’è grivoiserie, ci sono gli altari e c’è il talamo – peggio, c’è l’alcova! –, c’è l’immortale di Francia che muore nell’abituro della figlia del popolo, c’è il cardinale e c’è la puttana… ma, su tutto, c’è l’immaturità collettiva di un occidente alfiere d’una morale priva di etica, che assapora le molte implicazioni di un atto tanto esecrato quanto minuziosamente vagheggiato e morbosamente scrutato. Già, perché il destino (il rifiuto!) della memoria di Jean Daniélou venne inchiodato a questa sua morte (e fu a tal punto epifania di costume che, per essa, un termine proprio della teologia, epektasis – il protendersi dell’anima verso la pienezza di Dio, tema caro al cardinale e perciò usato nella sua commemorazione –, venne reso dal Canard enchaîné diagnosi d’“infarto libidico”; “morir d’épectase”, si prese a dire): e così tanti ancora si titillano chiedendosi se la passio del cardinale sia stata santa, come quella dei primi martiri, o troppo umana, come piacque irriderla ai più.

 

Il silenzio calato su questo cinquantesimo dimostra che per molti il ricordo di Jean Daniélou è ancora a condizione che se ne giustifichi la morte, in una coazione a ripetere che torna e ritorna di continuo al primo balocco, quello dei silenzi artatamente ambigui, delle mitizzazioni agiografiche (fuori misura, quando non del tutto comiche), del moralismo, minuto e borghese, che pretende di scoprire il mistero dell’uomo ispezionandone occhiutamente la biografia, con un orizzonte sulla vita rimpicciolito fino alle dimensioni del buco di una serratura. Eppure la vita di Daniélou fu tanto di più! Gesuita, fondatore delle Sources Chretiennes, redattore di Études, decano dell’Institut catholique, peritus del Vaticano II, cardinale di Paolo VI, successore di Tisserant all’Académie française; capace di un carattere pestifero, eppure amico di una vita di De Lubac e di von Balthasar; uomo troppo acuto, libero e francese per non coltivare il gusto del trasgredire gli stereotipi altrui, godendo del parere progressista ai conservatori e conservatore ai progressisti.

  

Convinto promotore del ressourcement propugnato dalla nouvelle théologie, intraprese con libertà quel rinnovato studio delle origini cristiane, trovando in esse non solo il prototipo perenne del rinnovamento della Chiesa, ma anche i parametri ideali per un nuovo progetto di occidente. Il dialogo interreligioso – e cristiano-ebraico innanzitutto – fu per lui radicale istanza politica e non abito nuovo del galateo ecclesiastico; la riscoperta della pluralità cristiana delle origini lo convinse che il dibattito intellettuale fosse l’antidoto al dissolvimento culturale dell’Europa; la rivalutazione di Origene e, in parallelo, di Filone – i maestri dell’esegesi alessandrina – gli fornì il modello dell’intellettuale nel mondo.

  

Un’inesausta attrazione per le intersezioni culturali aggregò il suo itinerario critico, permettendogli di scardinare il formidabile apparecchio storiografico approntato da von Harnack: al teologo liberale che vedeva nelle origini cristiane un lento tradirsi, dall’originale predicazione giudeo-cristiana alla “Grande Chiesa” ellenizzata del “cattolicesimo”, Daniélou rispose richiamando la vitalità di una terza polarità – il cristianesimo latino –, la cui evidenza storiografica dimostrò l’inadeguatezza di quel meccanismo binario. Daniélou riconobbe il carattere paradossale del Vangelo del Regno e ne fu attratto con la spontaneità e l’immediatezza dei primi destinatari della predicazione apostolica; la sua vita – come la sua morte – non può essere capita se non sul parametro di quelle origini sulle quali consumò il suo sguardo e dalle quali ottenne gli occhi con cui interpretare il mondo.

 

Il Vangelo di Tommaso attribuì a Gesù il detto: “Chi è vicino a me è vicino alla fiamma, ma chi è lontano da me è lontano dal Regno”. Una giovane donna, forse addirittura una prostituta, riferì che, morendo, un illustre cardinale francese pronunciò queste ultime parole: “Quelqu’un qui prend Dieu au sérieux devient un homme perdu”.

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