giornata della memoria
Nutrirsi della memoria in questa realtà capovolta
Il medio oriente lacerato, il pregiudizio che scambia le vittime con i carnefici. “Non ci possiamo permettere di cancellare il 27 gennaio”
Si è scelto venticinque anni fa di dedicare una legge alla Memoria. Alla memoria della Shoah. Alla memoria del genocidio del popolo ebraico e altri deportati. Alla memoria dello sterminio pianificato dai nazisti ed eseguito con la collaborazione di molti altri popoli e governi. Alla memoria dei sommersi e dei salvati. Alla memoria dei giusti che hanno sacrificato e rischiato la propria vita per fare proseguire quella di altri a loro spesso sconosciuti. Si poteva scegliere di non avere un giorno specifico ma di vivere la memoria senza un picco (27 gennaio) in modo continuativo. Se non fosse stato per Furio Colombo che ci ha lasciato pochi giorni fa – che ricorderemo e omaggeremo per mille altre ragioni – forse ci saremmo trovati a parlare di memoria della Shoah tutti i giorni o forse, al contrario, l’oblio collettivo avrebbe sopraffatto la memoria, che rimaneva una dimensione intima delle nostre famiglie e comunità. Perché sicuramente noi non dimentichiamo né abbiamo bisogno di un giorno e di un picco. Non solo perché la memoria è incisa e ci nutriamo di questa assieme al latte materno, ma perché abbiamo una data di riferimento stabilita ancora prima dallo Stato di Israele (Yom Ha-Shoah ve-Hagvurà, cioè Giorno della Shoah e del Coraggio). Per l’esattezza già il rabbinato di Israele aveva stabilito come data la commemorazione nel giorno del 10 del mese tevet del calendario ebraico, giorno di uno dei quattro digiuni in ricordo della distruzione del Tempio di Gerusalemme, per dedicarlo allo sterminio della Shoah e anche a tutti coloro di cui non si conosce la precisa data di uccisione. La data è stata stabilita dal Parlamento israeliano 27 di Nissan per un incastro di date/anno nel 1955 per fare coincidere la data con il giorno in cui è scoppiata la rivolta del ghetto di Varsavia (19 aprile) ma slittando di un giorno per via della festività pasquale. Nella memoria collettiva israeliana e di chi è cresciuto e vissuto in Israele il giorno è molto intenso, soprattutto perché suona una sirena di due minuti in cui l’intero paese di ferma in silenzio assoluto. Due minuti possono essere più intensi di mille cerimonie e discorsi. E nel pensiero di chi all’epoca propose quella definizione (Shoah ve-Gvura) l’impegno di memoria era di affermare che la deportazione forzata c’è stata, si è chiaro, ma c’è stata anche la lotta per difendersi coraggiosamente con il nulla rispetto alla potenza assoluta dei tedeschi.
Pochi forse sanno che quella data coincideva con il compleanno di Hitler, perché la rivolta scoppia il giorno in cui era stata programmata la liquidazione finale del Ghetto stabilita per il 20 di aprile come regalo speciale. Insomma, una torta decorata con migliaia e migliaia di ebrei “liquidati”. Il senso di una giornata dedicata in Italia, poi ripresa dopo cinque anni anche dalle Nazioni Unite, è quello di creare un momento dedicato alla conoscenza, all’approfondimento e alla consapevolezza. Non solo per ascoltare e omaggiare gli ebrei, ma per gli italiani stessi, perché si rendano conto delle proprie responsabilità e di quello che è importante interiorizzare come cittadini di questo paese e dell’Europa stessa. Credo che il concetto di “giornata” di per sé non sia sbagliato, come ne dedichiamo molte altre nel corso dell’anno ad altre commemorazioni e celebrazioni, che affermano le sfide morali, politiche e sociali che affrontiamo. Non sono date per “festeggiare” (e certo non festeggiare la Shoah, come mi capita di sentire anche ingenuamente) ma per riflettere e orientare le coscienze e compiere delle scelte. Il vero problema con il Giorno della memoria non è il concetto ma il contesto. Un contesto sociale che, per quello che viviamo in questi laceranti mesi dal 7 ottobre 2023, non è in grado di agire con coerenza.
Assistiamo sgomenti e increduli al ribaltamento totale: verso i carnefici è maturato un superamento (perdono mi sembra improprio) degli accordi del dopoguerra e dell’avvio dell’Europea comunitaria, accompagnato dal rivolo divenuto oggi fiume nostalgico di far tornare quel saluto decisionista; verso le vittime gasate l’accusa di essere carnefici, rivolta a ogni ente e bambino ebreo o israeliano. Ai pochissimi sopravvissuti, che con infinito coraggio e dolore hanno scelto di testimoniare quell’orrore, quell’odore di putrefazione e corpi arsi, quel colore grigio del cielo, quel sapore della fame, quei tormenti morali anche dell’essere sopravvissuti, viene ostentata una nuova forma di indifferenza, odio e improperi. E assieme a noi, increduli, assistono alla risposta che viene data oggi – nella stessa Europa e a distanza di ottant’anni da quel 27 gennaio del ‘45 – a come affrontare le sfide politiche che logorano e lacerano il medio oriente. La risposta arriva da una nuova religione che affascina folle: quella del diritto umanitario e dei principi costituzionali che sono santificati a prescindere da ogni concreta considerazione dei suoi destinatari. Libertà di parola? Assoluta. E non importa se offende la memoria e nega quanto avvenuto nella Shoah. Libertà di manifestare? Assoluta. Non importa se si inneggia allo sterminio e si massacrano beni e spazi pubblici. Libertà di stampa? Assoluta. Non importa se si inventano dati e si propongono le stesse foto selettivamente. Libertà di insegnamento? Assoluta. Non importa se si indottrinano gli allievi all’odio razziale. E così via.
E se questo è il contesto, giustamente qualcuno può alzarsi e dire: basta, cancelliamo questo anniversario e torniamo indietro, oppure ritiriamoci e chiudiamoci nelle nostre comunità e nell’abbraccio tra noi che ci proteggiamo anche con le nostre preghiere. Comprendo bene questo sentimento e desiderio ma non ce lo possiamo permettere. Perché piaccia o non piaccia noi siamo qui, siamo vivi. Siamo parte della cultura di questo paese e intendiamo esserci anche per i prossimi 2000 anni. Almeno. Perché la cultura della vita a cui noi inneggiamo e pratichiamo alla fine prevale e il vero sforzo che chiediamo è di insistere sui princìpi costituzionali perché siano salvaguardati per quello che intendevano affermare quando furono scritti. Per assicurare libertà e convivenza. Per affermare un sistema scolastico che superi non solo l’analfabetismo ma anche l’ignoranza storica. Che condivida scienza e saperi anche israeliani di cui l’intero mondo ha beneficiato per decenni. Che ponga la cultura alla base di ogni altro pilastro progettuale.
Allora alla vigilia di questo Giorno della memoria, con lo stillicidio di quanto avviene anche con l’accordo per il ritorno degli ostaggi, in queste ore, mi chiedo con una forte fitta al cuore, ma l’Onu con tutte le sue agenzie che ospitano, accolgono e sostengono quelli che si sono ispirati a Hitler e alla sua torta il 7 ottobre, che cosa intende celebrare oggi, 27 gennaio?
Noemi Di Segni
presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane