
(foto Ansa)
il racconto
La Roma dei funerali di Papa Francesco, a metà tra un pasticcio e un prodigio goliardico. Senza romani
Le esequie solenni del Pontefice, tra livelli di sicurezza impressionanti e il festival dello scippo in metro, strade senza auto e clacson piene di "girannoloni". E dove pure la sacralità del momento non batte il cinismo tipico della capitale
Strana questa Roma che non solo è senza Papa, come in un racconto di Guido Morselli, ma per un giorno è pure senza automobili, senza clacson, senza motorini, senza “aho ma nun lo vedi che c’hai lo stoppe?”. E in definitiva è pure senza romani. A San Pietro ci sono le statue dei santi, i vescovi in veste nera cinta di rosso, i cardinali che nel film “il Conclave” svapano la sigaretta elettronica. E poi ci sono ovviamente anche quei pellegrini appassionati, il cui numero, come si sa, è affidato alla benevolenza della retorica: “Duecentocinquantamila persone in piazza e centocinquantamila lungo i sei chilometri del corteo funebre”. Bum! Tra le transenne ci sono anche i tanti ragazzi venuti per il giubileo degli adolescenti. Ci sono gli argentini con le bandiere del loro paese, come nelle partite di Messi. C’è pure Juliane Assange su via della Conciliazione, con la moglie e il figlio. Ci sono poi le suore del Guatemala, i novelli sposi dalla Basilicata, qualche africano, tanti filippini che si fanno i selfie. E ci sono ovviamente i turisti americani in sandali, che davanti al Colosseo, mentre passa il feretro del Papa, sembrano dei marziani fuori dal mondo usciti da un film con Alberto Sordi: “What’s happening?”, “che succede?”. Surreale. C’è persino una signora bavarese che lavora alla biblioteca tedesca a Roma: “Mi piaceva Francesco, ma preferivo la solennità di Ratzinger”. Insomma ci sono tutti. Proprio tutti. In Piazza San Pietro e per le strade. Tranne i romani.
Il tassista che mi porta prima nel deserto dei Parioli alla ricerca di Trump, chiuso a villa Taverna con le sue novanta automobili blindate, e poi mi lascia a ridosso della zona interdetta al traffico intorno al Vaticano – tra i miasmi dei settecento bagni chimici disposti a Piazza Risorgimento e a piazza Pia – sbuffa meno del solito. “I romani so tutti fuori tra Pasqua, 25 aprile e Primo maggio”, dice. “Qua ce stanno solo gli stranieri e i gitanti italiani. I romani so scappati”. E poi aggiunge: “Sa come diceva Trilussa?”. No, come diceva Trilussa? “I pellegrini so girannoloni che ce rompono li cojoni”. E infatti le vie di Roma sono completamente sgombre, anche per evitare i girannoloni. I piazzali sono svuotati dalle automobili, e segnati solo dalle orrende strisce gialle della polizia locale. Quelle strisce che di solito poi non vengono rimosse per mesi e diventano, assieme alla monnezza e alle buche, l’addobbo e l’arredo cittadino. I carroattrezzi hanno passato tutta la notte a portare via le auto posteggiate su Via Merulana, su via Labicana, in via Gregorio settimo, su Corso Vittorio Emanuele. Già alle sette del mattino con c’è più niente. E allora forse, in questa assenza fisica dei romani, gli umori più superficiali, ma anche quelli più profondi della città vanno cercati nelle radio del calcio romano. Quelle che nemmeno oggi si fermano. Scandite da mille “a stronzi”, “‘ndo state?”, “‘ndo annate?”, ma soprattutto – oggi – scandite dalle telefonate disperate. Anzi, disperatissime. Sono le chiamate di quelli che avevano lasciato l’auto parcheggiata ed erano partiti per il lungo ponte. “Aho, le guardie m’hanno preso a’ maghina!”.
Nemmeno un lutto, nemmeno delle esequie solenni, nemmeno il Papa riesce a sconfiggere il fatalismo cinico e anarchico della romanità romanesca. Quella che duecento anni fa costrinse la Chiesa a tumulare Pio IX di nascosto, di notte, perché gli stornelli dei repubblicani romani – c’era il Risorgimento – minacciavano di buttare il feretro del Santo Padre nel Tevere. Qua nessuno vuole buttare Francesco nel Tevere, è chiaro. Ma il disincanto, pur non ostile, anzi certo affettuoso, è identico. Eppure, chissà, forse Francesco, che era uomo di “temperamento” come ha ricordato il cardinal Giovan Battista Re nella sua omelia funebre, avrebbe preferito proprio questo atteggiamento scanzonato e dissacrante alle parole impettite pronunciate dal pulpito e dal sagrato. Quelle che grondano enfasi recitata dagli schermi della Rai o dalle colonne dei giornali. Forse il Papa “di temperamento” avrebbe preferito il cinismo di Roma, la sua presente distanza, la sua calda assenza, agli eccessi retorici e a quell’appropriazione politica che nelle parole di Elly Schlein da quattro giorni fa sembrare Francesco un democratico di sinistra. Mentre su Libero il Papa defunto diventa ovviamente un meloniano convinto.
Al supermercato di via Taranto, alle nove del mattino, parte un messaggio della direttrice-cassiera: “Si avvisa la gentile clientela che alle ore 10 in occasione dei funerali di Papa Francesco sarà osservato un minuto di silenzio”. Però poi la signora dalle unghie smaltate e lunghissime dimentica il microfono aperto. “Le promozioni mettiamole domani che oggi nun ce sta nessuno in giro”. Dal macellaio di via Urbino ecco dei lacerti, è proprio il caso di dirlo, di conversazione. Il tema è il mastodontico corteo di Trump, che ha offuscato quello ben più piccolo del Papa defunto. Ecco un anziano con cornetto ampliphon all’orecchio: “Aho ma chi è?”. E il macellaio: “Come ma chi è? E’ quello che comanda il mondo”. E il vecchietto, di rimando: “Pure la Roma e la Lazio?”.
Nessuno può guarire da sé stesso. Non basta un funerale. Non basta nemmeno Laura Boldrini in occhiali da sole, in piazza, in stile diva del cinema, seduta in prima fila a Piazza San Pietro non lontano dal presidente Sergio Mattarella. Ci vuole un miracolo per impressionare i romani. Superiore a quello della conversazione di Trump con Zelensky sotto l’altare di San Pietro. Non bastano nemmeno le mani protettive di Emmanuel Macron poggiate sulle spalle del presidente ucraino che affronta quello americano. O la vaghezza di un accordo di pace con la Russia. Roma è Roma. I romani sono i romani. E infatti i cento autisti dell’Atac che guidano gli scassoni stracolmi di forestieri sulle linee speciali, le uniche consentite, verso il Vaticano, hanno ricevuto il loro “premio di produzione” per non essersi assentati anche stavolta. Sono pagati di più perché accettano di presentarsi a lavoro. Esattamente come i vigili urbani, che anni fa pur di non lavorare esibirono in massa il certificato medico del dottor Terzilli. Straordinari e bonus per tutti. Ma presentatevi al lavoro. Quanto? Impossibile saperlo. Al comando dei vigili capitolini, in piazza della Consolazione, a un passo dai Fori imperiali, non c’è modo di parlare con nessuno. Ma è comprensibile.
Il livello di sicurezza nel centro di Roma è a dir poco impressionante. Cecchini, super radar, batterie di missili, soldati, reparti anti sabotaggio, bazooka, polizia, carabinieri, servizi segreti, Protezione civile… E ancora furgoncini con le teste di cuoio armate fino ai denti e droni ed elicotteri come nella cavalcata di Apocalypse Now: “Mi piace l’odore del Napalm al mattino”. A Fiumicino, che è il mare di Roma, è ormeggiato pure un incrociatore militare che – ci dicono dalla centrale del Viminale – “può sparare un missile fino a quattrocento chilometri di distanza”. Quando lo riferiamo al titolare del Bar che fa angolo tra Piazza Vittorio e via dello Statuto (che per l’occasione ha aumentato il costo del caffè a un euro e trenta), lui ci risponde così: “Mecojoni!”.
Roma è un pasticcio e un prodigio goliardico. Ci sono quattromila agenti delle forze dell’ordine in mitraglietta per strada, all’aperto e in ogni angolo, ma nel sottosuolo, in metropolitana, c’è il festival dello scippo al turista. In quel budello sotterraneo e fetido della metropolitana di Termini, che porta folle di stranieri verso le fermate di Ottaviano e di Cipro, quelle più vicine a Piazza Risorgimento, lì dove un surreale comunicato di Atac annuncia che “il montascale funziona” (“Alleluja”, avrebbe detto Francesco), le borseggiatrici rom si muovono a loro agio come sempre. Anzi più di sempre. E’ festa grande, il giorno del funerale. Con la città piena di polizia. Inseguono turisti e pellegrini pure sulle banchine. Sembrano i piccioni intorno alle molliche ai piedi dei tavolini del Bar Rosati in Piazza del Popolo. E anche questo è un paradosso della normalità romana, che non si modifica, non batte ciglio, e non si fa assordare dalla morte e dalla chiacchiera sulla morte. E’ tutto come prima. Forse, a ben vedere, c’è addirittura della saggezza in questo atteggiamento che potrebbe sembrare stolido, indolente e menefreghista. C’è l’attesa che la morte, trasformata in chiacchiera, porti presto alla morte della chiacchiera.