Dalla Brexit a Trieste, un filo rosso dissacrante spiega l'obiezione fiscale
La notizia è questa: 229 cittadini di Trieste (fondando la loro pretesa su una vertenza di diritto internazionale, legata al 1954 e al passaggio all’Italia della città giuliana) hanno comunicato alle autorità di non considerarsi più contribuenti italiani e di ritenere illegittima ogni pretesa dello Stato sui loro redditi. La stampa locale sta dando enorme risalto alla questione, ma la vicenda allarma soprattutto le autorità di Roma. Per ora, nessuno ha buttato nel mare Adriatico i sacchi di tè, come avvenne a Boston nel 1773 quando ebbe inizio quella ribellione fiscale da cui scaturì la Rivoluzione americana. Ma certo le autorità sanno bene che il nostro stato ha i piedi d’argilla poiché è delegittimato, indebitato, in mano a politici invisi. In questo senso l’Italia sembra l’avanguardia di quel processo esaminato da Gianfranco Miglio, secondo il quale i regimi liberaldemocratici hanno demitizzato gli ordini sovrani e in tal senso hanno aperto a relazioni politiche del tutto inedite.
I fautori del Territorio Libero di Trieste che hanno deciso di non finanziare più l’Italia rischiano molto: specialmente se attorno a loro non si creerà quel sostegno che potrebbe proteggerli dalla ferocia che lo stato sa esercitare sui più deboli. In ogni caso bisogna guardare a loro come a interpreti privilegiati del nostro tempo: cittadini che si mettono in gioco per essere riconosciuti quali interlocutori e avviare un dialogo, come dovrebbe essere possibile in ordinamenti che si basano sul consenso.
Sullo sfondo dei fatti di Trieste, d’altra parte, c’è la crisi dello stato moderno. Negli ultimi due secoli il potere si è dilatato grazie a una retorica che ha giustificato il preteso diritto dei governanti (uomini di stato) di disporre dei governati (contribuenti) usando l’argomento della partecipazione democratica. Il ceto politico ha allargato il proprio dominio sulla società sostenendo che il potere statale viene dal popolo e quindi la sua estensione non comporta una limitazione delle libertà individuali. Gli avvenimenti del nostro tempo ci dicono che tutto questo ormai non regge più. Due anni fa Cameron ha fatto votare gli scozzesi sulla loro indipendenza e ha dissolto la sovranità britannica, poiché quella nozione si basa su territorialità e perpetuità. Il Regno Unito è ora disunito: resterà assieme fino a quando, e solo fino a quando, gli scozzesi decideranno che così deve essere. E poche settimane fa, con la Brexit, è stata desacralizzata anche l’Unione europea. Ormai assistiamo al trionfo della logica – intimamente anti-statuale – del consenso volontario; ed è significativo che la rivendicazione di Trieste si associ ad azioni di rivolta fiscale.
Dietro a quei triestini ci sono famiglie normali e sogni di libertà, insieme ad antiche frustrazioni, se si considera che la vecchia Trieste di Svevo e Saba era il porto dell’Impero, mentre ora è solo una delle periferie perdute di un’Italia in dissesto. C’è comunque da augurarsi che il potere non sia cieco e che l’intimidazione lasci spazio al rispetto delle tesi altrui.
I 229 triestini in rivolta sono obiettori che hanno dichiarato le proprie intenzioni e si battono per i loro principi. Se Trieste deve restare in Italia, non lo può decidere un funzionario o un vice-ministro. La democrazia può piacere oppure no, ma ha le sue logiche. E quanti ci governano invocando di continuo l’investitura popolare dovrebbero ricordarselo.
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