Magistrati che scrivono senza preoccuparsi delle prove
Ma i magistrati non sono stati secondi ai pentiti. Nel grande business dei libri sulla mafia ci sono entrati un po’ tutti, dall’ex capo della Procura nazionale Antimafia, Piero Grasso, al suo successore Franco Roberti; dal pacatissimo Maurizio De Lucia al vulcanico Alfonso Sabella; dallo straripante Antonio Ingroia che per dieci anni ha danzato attorno al suo capolavoro – l’inchiesta sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra – al granitico Nino Di Matteo sulle cui spalle quel processo ha finito per gravare. Ma i libri, si sa, servono anche per sorreggere la fragilità di certi impianti accusatori, nati spesso sotto la spinta di un movimento di opinione o peggio ancora – Dio ci perdoni il cattivo pensiero – dal narcisismo politicante di un qualche magistrato coraggioso, sempre pronto ad assaltare non solo le roccaforti della mafia, con annessi tutti gli immancabili poteri occulti, ma anche i sentieri luminosi della propria carriera.
Sarà un caso, ma pure i libri degli intrepidi procuratori, come quelli dei pentiti, nascono in compartecipazione con i giornalisti. Abitualmente si tratta di giornalisti non impegnati direttamente nella cronaca giudiziaria, quella che giorno dopo giorno deve dare conto, nel bene e nel male, di ciò che succede tra le aule e i corridoi del Tribunale. Ma Ingroia e Di Matteo hanno ritenuto di potere scavalcare anche questo tenue filo di bon ton e hanno scritto i loro libri con due cronisti giudiziari da sempre operativi dentro il Palazzo di giustizia di Palermo: una questione di fiducia, si dirà.
Le analogie tra i libri dei pentiti e i libri dei magistrati non si fermano tuttavia alla collaborazione con i giornalisti. Se gli ex mafiosi convertiti alla letteratura si ritengono esentati dall’obbligo di dire la verità, può anche capitare che un pubblico ministero si ritenga esentato dal dovere di fornire al lettore quelle prove che teoricamente dovrebbero supportare le sue tesi. E’ il caso di Antonio Ingroia che nel novembre del 2012 ha dato alle stampe “Io so”, un libricino con il quale l’eroico magistrato ha finito per trasformare le sue personalissime idee – le stesse, si presume, che lo hanno assistito durante l’inchiesta sulla Trattativa – in un vero e proprio manifesto politico. La pubblicazione del libro in quella data non è stata occasionale: nella primavera successiva l’Italia sarebbe andata alle urne per scegliere il nuovo governo e Ingroia credeva, anche grazie alla luce mediatica che costantemente gli pioveva addosso per il suo lavoro in procura, di essere già pronto per la discesa in campo.
C’era da superare solo un piccolo ostacolo: come dare per certa e avvenuta una Trattativa che, sul piano processuale, era ed è ancora tutta dimostrare? Semplice: bastava scrivere un libro di sapore pasoliniano: io non ho le prove, ma stendo la mia requisitoria come se le avessi; perché “Io so”, e questo dovrebbe bastarvi, cari amici miei. Un’acrobazia non da poco per un magistrato che si vorrebbe abituato al rigore dei fatti e del diritto. Ma tant’è. In compenso, la linea dell’azzardo – cioè quella di mettere sotto accusa poteri e istituzioni solo in base ai propri convincimenti – viene dichiarata fin dalle prime battute del libro. Autore e coautore ammettono candidamente, già nell’introduzione, di volersi attenere alla verità “ma a prescindere dalle prove e dai processi”. Con grande felicità dei lettori, ovviamente. I quali si ritrovano, da un lato, con un esercito di pentiti che scrivono di tutto e di niente senza avvertire un minimo obbligo di verità. E, dall’altro lato, con una pattuglia di magistrati, tutti di prima fila, che ammanniscono a noi poveri cristi le verità più indicibili e più inafferrabili senza neppure l’obbligo di una prova.
Non è una giustizia meravigliosa quella che di questi tempi va tanto di moda in Italia e in libreria?
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