Altro che proibizionismo, anche il gioco può diventare una “buona causa”
Roma. Il gioco d’azzardo è sempre vissuto in una tensione tra regolamentazione e divieto, tra un approccio realista e uno moralizzatore. Ma il proibizionismo, anche in questo campo, non è stato mai molto efficace. A Napoli, ad esempio, una città dove la passione per il gioco è sempre stata forte, re Carlo III di Borbone era deciso a ufficializzare il lotto sia per debellare il gioco clandestino sia per portare le estrazioni e i relativi introiti sotto il controllo pubblico. A questa visione si contrapponeva quella di padre Gregorio Maria Rocco – un frate domenicano che Alexandre Dumas padre nella sua storia de “I Borboni di Napoli” descriveva come “più potente del sindaco, dell’arcivescovo, ed anche del re” – che invece considerava il lotto corruttivo e immorale per i fedeli. Alla fine, nel 1734, prevalse la linea del re, ma con un compromesso: il lotto venne vietato durante le festività natalizie per non distrarre i napoletani dalla preghiera. La conseguenza del divieto fu la nascita della tombola, la versione domestica del lotto, che è appunto diventata una tradizione natalizia. La febbre per il gioco e per la Smorfia è stata più forte, se non della fede che comunque i napoletani hanno conservato, del divieto.
Oggi, a distanza di un paio di secoli, nella società italiana sembra tornata prevalente la linea di padre Rocco, con continue richieste da parte di associazioni e da tutto lo spettro politico di norme per limitare i giochi in maniera anche più radicale rispetto al frate domenicano: quasi tutte le regioni e tantissimi comuni hanno approvato delibere e regolamenti per vietare la presenza di slot e centri scommesse entro una certa distanza da luoghi sensibili come scuole, chiese, palestre, centri di aggregazione, ospedali, per impedire nuove aperture o ridurre gli orari e altri provvedimenti per evitare che persone e famiglie si rovinino col gioco d’azzardo. Il punto è che le leggi non vanno giudicate per i princìpi che affermano o gli obiettivi che si pongono, ma per gli effetti che producono. E non è difficile immaginare che in questo caso siano opposti a quelli desiderati, proprio come nel caso della Napoli del 700, anche per la facilità con cui oggi si possono trovare a portata di clic alternative illegali. Tra l’altro, l’industria del gaming, oltre a dare lavoro a molte persone, versa ogni anno nelle casse dello stato oltre 8 miliardi di euro, una cifra aumentata notevolmente negli ultimi anni successivi alle liberalizzazioni proprio per aver ridotto il mercato clandestino.
Ma il problema è che, mentre i danni della ludopatia sono visibili nella società, non lo è il gettito che confluisce nel calderone indistinto della fiscalità generale. Un modello per far emergere i benefici del gioco legalizzato è quello adottato nel Regno Unito, la patria delle scommesse, che destina oltre un quarto dell’intera raccolta alle “good causes”, ovvero a progetti per la salute, l’istruzione, l’ambiente, lo sport o la tutela del patrimonio culturale. Ogni anno Londra spende circa 1,9 miliardi di sterline in buone cause, peraltro tutte visibili in maniera trasparente città per città su un sito dedicato: negli ultimi 21 anni, la National Lottery ha speso 35 miliardi di sterline in circa 490 mila progetti in tutto il paese. In Italia accade solo in minima parte, grazie a una legge del 1996 che prevede una destinazione di scopo di una quota del gettito del lotto per il recupero del patrimonio culturale, per un totale di 1,8 miliardi in vent’anni. Tra l’altro, il potenziamento della destinazione di scopo sarebbe in linea con la tradizione del gioco, visto che tutti gli stati preunitari, dal Regno delle Due Sicilie allo Stato pontificio, destinavano i proventi del lotto per specifiche opere benefiche, culturali o infrastrutturali.
generazione ansiosa