Mentone, rafforzari i controlli al confine (foto LaPresse)

Quanti sono i richiedenti asilo che dovrebbero lasciare l'Italia e invece spariscono?

Cristina Giudici
Si può distinguere chi scappa dalle persecuzioni e ha diritto a una protezione da chi invece vuole colpirci? E soprattutto è possibile controllare chi si radicalizza? Viaggio nelle maglie caotiche del nostro sistema giudiziario.

Milano. Mohammed Deleel, che si è fatto esplodere ad Ansbach, in Baviera, ferendo 15 persone il 26 luglio scorso, era un richiedente asilo. Muhammad Riad, 17 anni, il minorenne afghano (ma la polizia ritiene fosse pachistano) che ha assalito e ferito 5 passeggeri su un treno a Wurzburg il 18 luglio era un profugo, radicalizzato dopo il suo arrivo in Germania. Davanti a un esodo che dura da cinque anni, diventerà sempre più difficile distinguere chi scappa dalle persecuzioni e ha diritto per legge a una protezione da chi invece vuole colpirci. E soprattutto è impossibile controllare chi si radicalizza, e decide nel giro di poco tempo di passare dalle droghe alle bombe. Come funziona in Italia? E’ come un gioco dell’oca. Si ritorna ogni volta allo stesso punto.

 

Nel 2015 nei progetti dello Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, sono stati accolti 21.613 profughi. Tra loro, il 58 per cento ha richiesto la protezione internazionale, il 10 per cento ottenuto lo status di rifugiato, il 13 per cento ha ottenuto la protezione sussidiaria, il 19 per cento la protezione umanitaria. Nel 2016, anno in cui sono arrivati in maggioranza profughi economici che scappavano dalla povertà o dai conflitti in Libia, c’è stata una ulteriore restrizione alle richieste di status di rifugiato. Secondo gli ultimi dati, le commissioni territoriali coordinate dalle prefetture, incaricate di valutare le richieste di asilo, quest’anno hanno accolto solo il 5 per cento delle richieste, ma al 18 per cento dei richiedenti è stata comunque concessa la protezione sussidiaria che dura 5 anni (usata soprattutto per certe di categorie di profughi che vengono da zone di guerra come siriani, afghani, iracheni). Inoltre al 13 per cento dei richiedenti asilo è stata data la protezione umanitaria che dura due anni, perché sono profughi economici o, come nel caso delle donne nigeriane (la comunità più numerosa a cui viene data accoglienza nel sistema dello Sprar), perché spesso vengono portate in Italia per prostituirsi da organizzazioni criminali e si cerca di aiutarle a sottrarsi al racket della prostituzione.

 

Ma cosa succede a chi si è visto negare lo status di rifugiato? Nulla. A eccezione di quelli considerati socialmente pericolosi o un rischio per la sicurezza nazionale, che sono rimpatriati con un decreto del Viminale, gli altri si infilano nelle maglie caotiche del nostro sistema giudiziario. Sì, perché se si nega lo status di rifugiato, si può fare ricorso e quindi passano almeno due anni prima che si prenda una decisone. E quando i richiedenti asilo perdono il ricorso, la maggior parte restano in Italia perché nessuno si può prendere la briga di espellerli. Costerebbe troppo, non ci sono risorse sufficienti oppure è impossibile perché vengono da paesi con cui non è possibile avere accordi bilaterali per via dei conflitti . Così molti, una volta usciti dal sistema di protezione che serve a integrare ma anche a controllare il flusso migratorio, semplicemente svaniscono. “Abbiamo un paradosso: noi che ci occupiamo di accoglienza dobbiamo andare a cercare per le strade chi ha un permesso di soggiorno regolare, e però teniamo migranti in centri di accoglienza a cui non è stato dato lo staus di rifugiato”, osserva Alberto Sinigallia, il presidente del progetto fondazione Arca che a Milano gestisce diversi centri di accoglienza. “Per rendere ulteriormente più caotico il sistema di accoglienza, adesso per far fronte all’emergenza dei numeri che crescono, è stata creata un’altra sigla: Cas, centro di accoglienza straordinaria. Hotel, soprattutto, che per trentatré euro al giorno si prendono in carico i migranti, ma solo per 5 giorni. Mi pare che in queste condizioni, si faccia un po’ fatica a garantire un sistema di accoglienza efficiente”.
Finora in Italia abbiamo avuto solo un caso pubblico di un somalo che in un centro di accoglienza incitava al jihad ed è stato espulso (nel sistema di protezione per rifugiati o aspiranti tali, la comunità più numerosa è la Nigeria, seguita dal Pakistan, Gambia, Mali. Gli afghani rappresentano solo il 10 per cento). Ma in un contesto di continui attacchi terroristici anche da migranti-profughi che si sono radicalizzati successivamente, dopo l’arrivo in Europa, dovremmo porci una domanda. Se in Italia i migranti arrivano soprattutto dal mare, e vanno salvati e di conseguenza accolti, poi come si controllano quelli che non avevano diritto a diventare profughi e restano in Italia, oppure quelli che provano ad andare in altri paesi europei e poi vengono rimandati nel nostro paese? Dove finiscono? Di quanti se ne perdono le tracce?

 

Secondo l’ultimo rapporto dello Sprar relativo al 2015, l’anno scorso sono arrivati sulle coste italiane oltre 149.000 migranti e 85.000 sono state le istanze di protezione internazionale di cui accolte solo il 10 per cento. E i rimpatri secondo il Viminale sono stati 15 mila, ma il dato si riferisce a espulsioni complessive legate anche alla criminalità comune e non a quelle specifiche – non, cioè, a chi è stato rifiutato il diritto alla protezione internazionale. E gli altri dove sono finiti? In centri di accoglienza o svaniti nel nulla. Oppure bivaccano all’aperto. A Milano per esempio ci sono richiedenti asilo abbandonati nei giardini della stazione Centrale, profughi accampati sotto la tangenziale est per Linate e immigrati costretti a dormire all’aperto a due passi dal centro di accoglienza di via Sammartini. Secondo gli operatori che lavorano in trincea, tenerli nel sistema Sprar sarebbe la cosa migliore, sia per l’integrazione sia per il controllo, ma i posti sono limitati, il budget pure e l’adesione dei comuni ai progetti Sprar volontaria. Così aumenta il caos, e l’inquietudine per eventi imprevedibili come è successo in Germania.