Gino Paoli, canta che (non) ti tassa
Il problema del mitico cantautore non è l’evasione fiscale, ma l’ipocrisia moralista con cui comiziava a favore delle imposte e poi “dimenticava” quelle della Festa dell’Unità. E quando era alla Siae aumentava i balzelli.
Gino Paoli è l’autore di alcune delle canzoni più suggestive degli ultimi decenni, gliene saremo sempre grati. Però ha deciso di investire una parte della popolarità e della stima raccolte con la musica in attività politiche e corporative. Ed è su questo Paoli, più politicante che cantante, che ancora recentemente ha svolto un comizio contro le tasse che aveva come slogan “l’onestà che obbliga anche gli altri a essere onesti”, pesa una evidente ipocrisia: visto che aveva ricevuto due miliardi di compensi in nero nelle feste dell’Unità e poi li aveva trasferiti in un conto svizzero. Probabilmente sarà assolto dal reato di evasione fiscale perché non è stato possibile stabilire la data precisa dell’evasione e dell’esportazione di capitali. E nessuno si augura che un artista ultraottantenne venga condannato penalmente. La condanna alla quale non potrà però sottrarsi è quella che mette in luce l’incoerenza del suo comportamento con i principi affermati con una retorica che ora appare esilarante. Da presidente della Siae ha promosso un aumento colossale delle gabelle sulla musica, contraddicendo in modo evidente le sue polemiche contro un sistema fiscale iniquo e punitivo. D’altra parte, quando dice che il pagamento in nero nelle feste di partito era pratica abituale, dovrebbe ricordare che anche gli elenchi dei pezzi su cui si doveva pagare la Siae, nel corso di quelle manifestazioni, risultavano sempre assai striminziti. Insomma si imbrogliava anche la Siae, con la connivenza di chi poi ne avrebbe assunto la presidenza.
Senza nessuno spirito moralista, se si può in sostanza tollerare che Paoli e l’ambiente politico in cui ha scelto di collocarsi, siano coinvolti in pratiche diffuse anche se piuttosto spregiudicate, resta difficile da digerire il piglio moralistico e fustigatore che essi stessi hanno adottato nei confronti di avversari politici e concorrenti artistici.
Com’è noto la differenza tra il moralismo e la moralità è che il primo si applica agli altri, il secondo a se stessi. Anche questo caso, seppure di dimensioni poco rilevanti, sottolinea questa differenza e questa opposizione, al punto da far pensare che il moralismo non sia solo diverso dalla moralità, ma che che costituisca in molti casi l’aspetto esteriore dell’immoralità interiore. D’altra parte il campione del moralismo trasformato in (purtroppo assai efficace) propaganda politica, Beppe Grillo, era sceso apertamente in campo a difesa di Paoli, non del suo diritto a difendersi nel procedimento penale, ma proprio sul fatto in se dell’esportazione dei capitali, che invece è stato provato e alla fine ammesso dallo stesso Paoli. Questa scivolata dovrebbe indurre Grillo, e non solo lui, a non trinciare sentenze sulla base delle sensazioni e del sensazionalismo, in ossequio a un principio garantista che ha senso solo se si applica a tutti e non solo agli amici.
Paoli sarà ricordato per la sua musica, non per queste vicende piuttosto miserevoli, ed è giusto così. Ma nel piccolo mondo delle polemiche politiche, in cui ha scelto lui di entrare, la sua figura si riduce a quella di un piccolo ipocrita, ed è giusto anche questo.