Qui le rose sono diventate bianche, gli occhi polvere
Amatrice, dalla nostra inviata. Le rose rosse dei giardini sono diventate bianche, ricoperte di polvere, ma basterà la pioggia a farle tornare identiche a prima. Le rose non sprofondano, non crollano, il cielo è azzurro sopra il paese cancellato, dove sotto le pietre di zucchero ci sono i morti. Si cercano i corpi dentro la città afflosciata, adesso solo i corpi. I parenti, le madri, i fratelli, devono aspettare fuori dalla città dei morti, hanno gli occhi cerchiati di polvere, bagnati e secchi insieme, hanno uno sguardo che non è più quello dei vivi, ma si abbracciano, si toccano la faccia, scoprono di avere ancora una voce, una carne, e tutto intorno a quella voce lo sgomento, il dolore ancora incomprensibile, lampi brevissimi di speranza che non sia vero. “C’è mio fratello là sotto, mio fratello con sua moglie, ma devo aspettare qui, non posso restare là con lui”, piange senza più piangere un uomo alto, arreso, con le mani scorticate, e indica un cumulo di pietre all’incrocio con la via principale, era una casa con il balcone, sorride perfino, “io lo so che non ce l’ha fatta, lo chiamavo, l’ho chiamato tanto, Riccardo, Riccardo sei vivo? Mi ha risposto per tre volte, ho sentito la sua voce sotto le macerie, poi ha smesso, ma io non volevo lasciarlo là, a morire da solo”. La moglie lo stringe, gli dice dolcemente: vieni via adesso, basta parlare.
Loro sono sopravvissuti, la casa è rimasta in piedi perché era nuova, solida, hanno aperto le finestre di notte e hanno visto la nebbia, sentito i tetti che crollavano sopra le persone, sentito le urla, salvato qualcuno trascinandolo fuori, usato le torce dei cellulari per illuminare un pezzo di strada (la strada, il corso principale di Amatrice non esiste più, e ieri pomeriggio un’altra scossa ha fatto crollare quel che restava della scuola elementare). Ma nessuno vuole parlare di quelli che ha salvato, perché sono troppi quelli che erano vivi un minuto prima, e sono stati inghiottiti e tutti, tutti, hanno dentro gli occhi altri occhi che sono spariti in un lampo, prima sul tetto, sul balcone, o dietro la porta bloccata, e poi più niente. “Mia nipote aveva tredici anni, doveva ripartire oggi, le avevo fatto il pollo con le patate a cena, era nel lettone con la nonna, le piaceva dormire con lei”. Giuliana non riusciva a dormire, e affacciata alla finestra ha visto un ragazzo che rientrava a casa, alle tre di notte. “E’ morto”. Tutti qui hanno dei morti. Non ci sono vivi intatti, non esiste una persona – in questo paese dove tutti si chiamano per nome e dove sono rimasti in piedi quasi soltanto gli alberi – che non abbia perso qualcuno, che non stia cercando disperatamente qualcuno, e non c’è altra domanda che venga fatta a chi cerca di entrare: è qui per il riconoscimento? Il riconoscimento dei cadaveri avviene attraverso le descrizioni, c’è un ufficio che si chiama: assistenza alla popolazione. Mio figlio aveva un tatuaggio sul braccio a forma di stella, gli occhi celesti, bellissimi, e una catena con la croce. Se la descrizione corrisponde, viene mostrata una foto.
“E’ brutto quando scavi e trovi un corpo, è ancora più brutto quando il corpo non è più intero”, bisbiglia un vigile del fuoco a un altro, sono ricoperti di polvere ma nessuno vuole farsi ascoltare mentre racconta l’orrore. L’orrore appartiene soltanto agli abitanti, ai villeggianti, gli altri sono qui per aiutare, per scavare, per far giocare i bambini. E Rosalia? Hai notizie di Rosalia?, dice una signora con la fronte bendata e il naso insanguinato. Non la trovano mamma, la stanno ancora cercando, smettila di chiedermelo. Alessia distoglie subito lo sguardo dalle domande ed è incinta, seduta su una seggiola pieghevole nella tendopoli appena costruita, in cui hanno servito la pasta al pomodoro, la mozzarella arrivata da Fondi con i camion dei volontari (“mangia pure tu, è buono, ma non dire che sei una giornalista, è meglio”), Alessia però non mangia e aspetta che la sua tenda sia pronta: devo dormire, non ce la faccio più, poi sorride, si assenta con gli occhi: avevo appena pulito il lampadario del bagno, mi ero arrampicata fin lassù a cambiare le lampadine, ero così soddisfatta, avevo tolto tutta la polvere, adesso non abbiamo più niente, neanche le scarpe, ma siamo usciti vivi per miracolo. Sua figlia di cinque anni fa su e giù da uno scivolo giallo di plastica con due amiche. Sono le bambine salvate, illese, allegre anche per aver dormito in auto tutti insieme con il cane. Una dice: voglio andare a casa, l’altra spalanca gli occhi e ride: a casa?? La tenda vuoi dire. La bambina resta un attimo in silenzio, poi dice: vabbè, io la chiamo casa, e ricomincia a scivolare.
Una foto scattata da Annalena ad Amatrice
Solo le rose restano identiche. Una ragazza rumena ha dormito per terra con i vigili del fuoco e poi li ha portati nel punto dove sapeva che avrebbero trovato sua sorella. Ha detto: è lì. Era lì. Negli occhi di tutti quelli che adesso camminano per strada, tra la palestra con le brandine e le automobili per andarsene o per dormirci, con le buste di plastica, con dentro una maglietta, un cuscino, un orso di peluche, e che si incontrano e si riconoscono e hanno un sussulto e chiedono: tutto bene?, e ascoltano in silenzio la conta dei morti, mia sorella, mio zio, mia suocera, i bambini di mia cognata, e piangono, in quegli occhi c’è adesso una cosa nuova e incancellabile, un velo, anche una diffidenza verso il resto del mondo dei vivi. “Io li ho visti, erano ancora abbracciati, erano bianchi ma il sangue era marrone, avevamo cenato insieme perché c’era la sagra, Alessandro invece stava già facendo il pane, è morto sotto il forno”. Mariti e mogli che dormivano, i bambini nell’altra stanza, e adesso fra le pietre ci sono i libri dei compiti delle vacanze, c’è un vocabolario di greco, il quadro di una ballerina, un cuscino a fiori, una collezione di fumetti. Le cose importanti vengono portate in un altro ufficio, le chiavi della macchina erano dentro casa, io adesso ho solo queste ciabatte, datemi qualcosa per coprirmi, datemi un pezzo di sapone per lavarmi, datemi un giocattolo per Giulia che piange, datemi una sigaretta per favore, e di notte fa già così freddo. Una ragazza vestita di nero cammina con gli occhi sbarrati, pieni di lacrime, vuole ringraziare un carabiniere di Roma di cui conosce soltanto il nome, Emanuele, non vuole essere aiutata a portare una cassa d’acqua, non vuole parlare, però invece si ferma e dice: è giusto che se i cani non annusano niente passino oltre, vadano in un’altra casa, io lo so che bisogna andare dove c’è speranza, però adesso dov’è la mia speranza? La speranza dei miracoli si è spenta già, dopo che si è capito, dentro l’inganno delle pietre collassate, senza nessun grido, che ci sono più morti che all’Aquila, che ci sono troppi bambini sotto questi sassi muti, bambini in vacanza, bambini dentro l’hotel Roma che si è sbriciolato in due minuti, bambini che prima urlavano aiuto e poi a poco a poco non urlavano più. “Gli dicevo: buttati Matteo, buttati dalla finestra, te devi butta’, ma non si è buttato”. L’unica speranza, adesso, è per questi bambini che giocano nella tendopoli, corrono sul monopattino nuovo che è arrivato con un camion dall’Aquila, si spingono a turno sull’altalena. Giorgia dice: mamma, poi ci torniamo ad Amatrice dalle mie bambole? La mamma si tocca la pancia al settimo mese e raddrizza la schiena e lo sguardo: sì che ci torniamo.
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