Perché in Italia siamo interessati al danno e non a come funziona il sistema
Tanti anni fa seguivo il corso di Fisiologia vegetale. Era il primo giorno, arrivò la professoressa, minuta, con grembiule bianco, diede un’occhiata alla classe: eravamo in sei. Disse: in Italia è sempre così, tutti si iscrivono a patologia e nessuno a fisiologia. Tutti sono interessati al danno e nessuno a come funziona il sistema. Eppure spesso è la nostra ignoranza sul funzionamento del sistema la causa del danno. Ecco, soprattutto perché io mi iscrissi per caso a quel corso, ma quando capitano eventi sismici e tragedie, ci ripenso eccome a quelle parole. Ho l’impressione che, non volendo, quella professoressa abbia identificato e sottolineato un nostro specifico modus vivendi. Stiamo o non stiamo sempre lì a commentare il danno, abbiamo o non abbiamo quell’espressione un po’ così, alla te l’avevo detto io? Inoltre il concetto di danno è correlato al tasso di emotività.
Chi indica il danno si sente anche protagonista, è il primo (lui pensa) a puntare il dito. Allora si allarma, alza la voce, ascoltatemi dice, cerca aggettivi e costrutti abbastanza ovvi (terribile, grande paura, scosse infinite, la terra non smette di tremare) ma che finiscono, alla fine, per aumentare l’emotività e diminuire l’informazione: il terremoto ha distrutto il centro Italia, titolavano, in sintesi, molti quotidiani. E poi mette su citazioni e paragoni sospetti, ha una cosa da dire alla quale gli altri nemmeno hanno pensato e, costi quel che costi, bisogna azzardare. Eugenio Scalfari commenta così: “Quando arrivò pochi giorni fa la notizia del terremoto ad Amatrice e in altre terre d’Abruzzo, di Umbria, delle Marche e del Lazio rietino, stavo rileggendo i Canti e le Operette morali di Giacomo Leopardi”. Capite la differenza? Io dormivo. Non fraintendetemi. Una tragedia si sente, e questa si è sentita eccome. Le persone sono colpite, toccate, vogliono dare una mano e si vede, la generosità non è sospetta, non voglio dir questo. Però mi sembra che questa euforia per il danno, insomma per la patologia, ci porti ad apparecchiare un pranzo pesante: un’abbuffata di dolore e indignazione, di storie, cuori palpitanti in presa diretta, il Destino, la Morte, il Caos, ecco tutto questo mi appare, scusate il bisticcio, come un patologico bisogno di cura. Perché la conseguenza della visione patologica è appunto la cura. Che è un concetto ambiguo, bisogna farci attenzione. Chi cura ti dice: senza di me non ce la puoi fare, quindi viola lo spazio della responsabilità individuale, grande invenzione dell’Occidente.
Chi cura, poi, ha uno smisurato desiderio di invaderti con il suo bene, quindi è onnipresente e vuol purificare il male che c’è in te. Per questo usa parole tronfie, deve convincerti, tende a farti credere che il momento è solenne, campale, unico, irripetibile e lui c’è. Chi cura è come uno sceneggiatore attento solo al primo atto. Lì è facile far andare avanti il dramma, basta dichiarare i propri intenti: dichiarali non dimostrarli. Ragione per cui, dopo questa abbuffata sentiamo i postumi dell’indigestione e tutto si spegne, l’amore, l’ardore, la passione, la cura, gli aggettivi, i terremotati. Quando dovremmo entrare nel secondo atto, cioè affrontare i costi delle nostre dichiarazioni, con calma, attenzione, pazienza e capacità di analisi, più misurata e scientifica, ecco lì noi italiani siamo più spenti. Anche per questo la parola manutenzione non ci eccita: troppa enfasi nel primo atto, perdiamo energia strada facendo, del resto la manutenzione è più discreta, vola raso terra, è costretta per sua natura a fare catalogo delle cose che abbiamo imparato e metterle a frutto. Richiede poi un cifrario culturale, più essenziale, tecnico. Dunque raccontare, per esempio, di quello che studia come funziona il sistema e mette in atto strategie di prevenzione, bè non è facile. Si trovano pochi commentatori e pochi ascoltatori. Ci credo che siamo abituati a unire emotività e patologia: noi siamo oltre, voliamo tra il cuore e gli aggettivi, non fateci fare cose ordinarie.