Capitale senza mafia. Ma va?
La testimonianza è durata poco meno di due ore ma solo negli ultimi minuti ha avuto il suo momento chiave. Ieri al processo Mafia Capitale è stato sentito come testimone il presidente della Autorità nazionale contro la corruzione Raffaele Cantone, citato dalla difesa di Salvatore Buzzi. Cantone e la sua struttura hanno controllato gli appalti del comune di Roma nel periodo dal 2012 al 2014, esattamente quello in cui si sviluppa l’indagine giudiziaria che, partendo dalle vicende di Massimo Carminati, ha portato a questo processo. Un riscontro incrociato dunque. L’Autorità contro la corruzione ovviamente non può avviare procedimenti penali ma ha l’obbligo di segnalare alla procura della Repubblica documenti e procedure esaminati, se ravvisa la possibile presenza di un illecito penale. Nel caso del controllo sul comune di Roma, le segnalazioni di questo tipo non sono mancate.
Di questo si è parlato nell’incrocio di domande e risposte della lunga testimonianza il cui tono generale è stato descritto dallo stesso dottore Cantone, all’uscita dall’aula bunker di Rebibbia, parlando con i giornalisti, come “soft, light”. Disteso, insomma. Tanto è vero che i pubblici ministeri hanno risolto le loro domande in meno di cinque minuti complessivamente. Ma le cose importanti sono successe dopo, quando un avvocato di parte civile, Giulio Vasaturo per l’associazione antimafia Libera, ha chiesto al presidente Cantone di spiegare bene il criterio che fa scattare la segnalazione all’autorità giudiziaria da parte di quella anti corruzione. Cantone è stato chiaro nella risposta: “In tutti i casi in cui riteniamo ci sia anche un mero ‘fumus’ di illecito penale, a partire da un semplice abuso d’ufficio, noi trasmettiamo gli atti all’autorità giudiziaria”. Un dubbio, una possibilità dunque bastano. Poi se la vedano i pubblici ministeri. Un criterio così ampio ha una logica di autodifesa per evitare sgradevoli eventuali contestazioni successive e dunque è difficile dubitare della sua applicazione.
A questo punto si è inserito l’avvocato Alessandro Diddi, il difensore di Salvatore Buzzi, per porre la domanda delle domande: “Ma fra le ipotesi di reato vi è mai capitato di segnalarne qualcuna relativa al 416 bis, all’associazione mafiosa?”. Domanda astutamente suggestiva che la presidente Ianniello ha cercato di bloccare. In effetti la qualificazione dei reati non tocca all’autorità, che si limita a segnalare fatti. Ma a questo punto c’è stato il colpo di scena. Raffaele Cantone ha convenuto che nelle relazioni non c’è mai la qualificazione giuridica ma ovviamente, per inviarle, una idea del tipo di reato bisogna pur averla anche senza metterla nero su bianco e ha tenuto a precisare: “Posso dire di avere trovato ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione oppure reati economici, ma posso escludere di aver mai individuato, fino ad oggi in quelle carte, una sola qualificazione di 416 bis”. Neanche una ipotesi, un dubbio, una possibilità, un fumus. Niente. A dirlo è un magistrato che da pm si è occupato, con successo, di processi alla mafia casalese. Dopo la sentenza di appello sulla “mafia di Ostia”, le parole di Cantone sono la seconda scossa sismica che colpisce in breve tempo il pilastro accusatorio del processo. Il clima sarà pure stato “soft” ma per l’accusa l’udienza si è rivelata “hard”.