La cultura della vita e noi
A diciassette anni ha chiesto di morire. I genitori erano d’accordo, il medico era d’accordo, la commissione federale era d’accordo, la legge in Belgio consente l’eutanasia per i minori di diciotto anni. Fino a diciotto anni si è ancora pazienti pediatrici, con dolori da adulti in corpi di bambini, corpi di ragazzi: addosso una diagnosi di inguaribilità, la certezza che non si diventerà mai grandi, la guerra è stata combattuta e persa, il padre non dirà mai a suo figlio: è passata, è finita, adesso starai bene, e non potrà mai nemmeno fare a cambio, prendersi addosso quell’inferno al posto suo, potrà soltanto viverlo fino in fondo insieme a lui.
Questo ragazzo (o ragazza) viveva in un paese delle Fiandre e soffriva di “dolori insopportabili”. Il suo, e quello della sua famiglia, è stato un atto di volontà. I medici l’hanno fatto scivolare nel coma, con i sedativi: è la prima volta che succede da quando in Belgio è stata approvata la legge sull’eutanasia per i minori nel 2014. Ci sono state critiche molto dure sulla “soppressione di una vita fragile”, e riflessioni sull’angoscia esistenziale che sprigiona da una società che accetta di provocare la morte di un suo figlio. Ma anche immedesimazione in questi dolori insopportabili, in questa assoluta mancanza di speranza e sfinimento individuale, di cui un medico, e una famiglia, deve farsi carico con tutte le forze e tutte le possibilità: una vita puoi non riuscire a salvarla, ma di quella vita devi prenderti cura fino alla fine.
E’ il senso di una legge molto importante che in Italia è stata approvata sei anni fa, la legge numero 38 del 2010: regola le cure palliative pediatriche e la terapia del dolore, prevede, precisamente, l’accompagnamento alla fine di un bambino inguaribile, il suo diritto alla migliore vita possibile, fino a che sarà possibile. Eliminare il dolore, aiutare i genitori, aiutare anche a far comprendere il significato e l’opportunità, nei casi estremi, della sedazione continua. E’ un’idea di mondo totalmente diversa, che va oltre il bisogno sanitario e anche oltre l’idea di trionfo della medicina, che apre la testa alle necessità della vita.
Dove c’è un bambino che soffre, e che non guarirà, deve esserci un mondo intero di aiuto, una rete di soccorso, e la consapevolezza che un bambino non è un piccolo adulto, ma è un universo a parte, con malattie e con reazione alle malattie molto diverse, e che degli adulti ha bisogno e che agli adulti si affida. L’umanità del dolore non è un’espressione vaga, riguarda le persone una per una, riguarda i palloni e le punture, gli orsi di pezza e i film alla tivù e la mamma che gli tiene la mano tutto il tempo, e non riguarda nemmeno Dio, ha spiegato la dottoressa Franca Benini, che ha portato le cure palliative in Italia e che lavora ventiquattr’ore su ventiquattro all’Hospice Pediatrico di Padova (ma la legge 38 va applicata in ogni regione italiana, e tutto il mondo la studia): quando la vita diventa estrema e grida bisogni ogni istante, l’uomo deve dare una risposta.
Non significa rimuovere la morte, metterla in un angolo, non accettarne la possibilità, l’inevitabilità, e perfino, anche se suona brutale, il sollievo che potrebbe portare con sé. Ma significa vivere per la vita, per trovare una fessura, da qualche parte, in cui possa passare il senso del soffio di tempo che resta, non come un conto alla rovescia ma come un’altra possibilità. Un bambino delle elementari, malato inguaribile e gravissimo, ha detto che è diverso il dolore fuori dal dolore dentro. Che cos’è il dolore dentro? E’ quando sei solo. Le legge 38 del 2010 è stata fatta per non lasciarli soli, fino alla fine.