Rotoloni Woodcock
Roma. “Il metodo Boffo” e “la macchina del fango”. Sono passate diverse epoche politiche – il declino del berlusconismo, il governo dei tecnici e l’ascesa del renzismo – ma la lentezza della giustizia italiana ci riporta per un attimo con le lancette indietro di sei anni. La notizia è una sentenza definitiva, ora quasi ignorata, di un’inchiesta che all’epoca era sulle prime pagine di tutti i giornali. La sentenza è l’assoluzione di Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e conduttore di “Matrix”, e l’inchiesta era quella che nel 2010 lo vedeva accusato insieme al direttore Alessandro Sallusti (già archiviato) per “violenza privata” ai danni dell’allora presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Nell’ottobre del 2010 una ventina di carabinieri perquisiscono la sede del Giornale e le case di Porro e Sallusti, sono a caccia di un “dossier” contro Marcegaglia. Contemporaneamente vengono diffuse le intercettazioni delle conversazioni di Porro, molte riguardanti aspetti personali, con il portavoce della Marcegaglia, Rinaldo Arpisella, che dimostrerebbero la “violenza privata”. Almeno questa era l’ipotesi dei magistrati napoletani Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock. Un momento, cosa c’entra la procura di Napoli con due giornalisti di un quotidiano milanese?
Tutto nasce da un sms di Porro ad Arpisella: “Domani super pezzo giudiziario sulla family Marcegaglia”. E poi: “Spostati i segugi da Montecarlo a Mantova”. Secondo Woodcock queste conversazioni sono la prova che il Giornale, come per la casa di Montecarlo di Gianfranco Fini, stia per mettere in moto la famigerata “macchina del fango” per colpire la linea non berlusconiana di Confindustria. Insomma, squadrismo giornalistico. Porro finisce su tutti i giornali e viene trattato come una specie di sicario, non riceve la solidarietà di chi si imbavaglia per la libertà di stampa (figurarsi), ma neppure un comunicato di vicinanza dall’Ordine dei giornalisti o dal sindacato. Solo qualche dubbio sull’irruzione dei carabinieri nella sede del quotidiano, seguìto dai “sì, però” e dai distinguo dai puzzoni del Giornale. Tutti si sentono confortati dal procuratore di Napoli Giandomenico Lepore: “La libertà di stampa in questo caso non c’entra”. Non preoccupa neppure il fatto che entrambi i pm che indagano su direttore e vicedirettore del Giornale abbiano in passato fatto causa ad altri giornalisti dello stesso quotidiano. D’altronde ci sono le rassicurazioni di Lepore, come non fidarsi.
Gli inquirenti però non trovano alcun “dossier”, nessun riscontro rispetto alle intercettazioni – che comunque vengono diffuse massicciamente e bastano a far scattare una condanna mediatica per direttissima – e l’impianto accusatorio è talmente fragile che cambia radicalmente. Il disegno criminoso di Porro non mira più a punire o minacciare la Confindustria per la sua linea politica, bensì ha l’obiettivo di estorcere un’intervista alla Marcegaglia. Però dalle intercettazioni, che sono gli unici elementi su cui si basano i pm, emerge che l’intenzione di non dare interviste al Giornale da parte della ex numero uno di Viale dell’Astronomia sarebbe motivata dalla volontà di non apparire troppo berlusconiana, ovvero l’opposto dell’ipotesi dei pm, cioè che la Marcegaglia fosse troppo anti berlusconiana. Per farla breve, nell’arco di sei anni, il processo si sposta per competenza a Milano, dove la procura archivia la posizione di Sallusti, e poi a Roma, dove il pm chiede l’assoluzione di Porro per insufficienza di prove. Ma il giudice va oltre e lo assolve con formula piena. Gli spostamenti di tribunale riportano al quesito di poco sopra: cosa c’entrano i pm di Napoli con un giornale di Milano? E perché Porro era intercettato? Il giornalista non era indagato, quindi l’ipotesi dei giornali era che lo fossero non si sa bene per cosa Arpisella e Marcegaglia e che Porro ci fosse finito per caso. Ma si trattava di voci infondate, tanto che il procuratore Lepore fu costretto a negare “presunte indagini” su Marcegaglia e il suo portavoce. Anche loro sono finiti in una catena di Sant’Antonio d’intercettati per aver parlato non si sa con chi, a sua volta indagato non si sa per cosa. Dopo sei anni resta un lungo elenco di persone sputtanate dai rotoloni di intercettazioni, che, come dice la pubblicità, non finiscono mai.
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