L'apocalisse normale
Erano le 19:10, mercoledì, quando la terra ha tremato ancora. Poi l’ha fatto di nuovo, alle 21:18, e alle 23:42. Nel mezzo, un’infinità di scosse minori (ripetizioni, le definiscono gli esperti, ma adesso le chiamano così anche sull’autobus). Dopo la prima scossa, quando la terra ha tremato perfino a Roma, proprio come il 6 aprile del 2009 e come il 24 agosto scorso, la memoria, come un istinto, è volata alle immagini di Amatrice, di Arquata, di Accumoli. Alla ferita aperta da poco più di due mesi. Ai morti. Sembrava soltanto una questione di tempo. Solo che più il tempo passava, più la notizia, quella notizia, non arrivava. Intorno alle dieci di sera Marco Rinaldi, sindaco di Ussita, comune di quattrocento anime in provincia di Macerata, seduto sopra l’epicentro del sisma, è intervenuto a SkyTg24: “L’ultima scossa è stata terribile, lunga e di una violenza inaudita, sono crollate parecchie case e la facciata di una chiesa. E’ una situazione apocalittica”. L’apocalisse era ciò che ci aspettavamo, e il sindaco di Ussita, con le sue parole comprensibilmente concitate, oltre a raccontare la situazione di un paese colpito dal terremoto, dal freddo, dalla pioggia battente e dalle frane, più che una notizia stava confermando la nostra profezia. O il nostro pregiudizio: il sospetto dell’eccezionalità, della straordinarietà dell’evento. Il terremoto – ci stava dando ragione! – era “un’apocalisse”. La parola chiave, che stava correndo veloce sui social network e nei titoli dei telegiornali, ha iniziato a rallentare solo quando una delle componenti fondamentali dell’immagine apocalittica è venuta a mancare: i morti.
Ed eccola, dunque, la seconda fase dell’eccezionalità dell’evento: un terremoto di magnitudo 5.9 che in Italia non fa vittime – a parte purtroppo un signore di settantatré anni morto di paura a Tolentino. Di nuovo una immagine biblica, evocata da molti online ma soprattutto dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano: “Se confermata l’assenza di vittime e feriti gravi il bilancio del terremoto è miracoloso, vista l’intensità delle scosse”. Dall’apocalisse al miracolo, insomma, il passo è breve perché di fronte a un evento naturale del quale si possono solo contenere i danni, ma dal quale non si può sfuggire, in Italia l’unico esercizio è quello della ricerca dell’eccezionalità, della reazione irrazionale, divina (o divinatoria, non è un caso se soltanto qui siano stati processati degli scienziati per non aver predetto un sisma che, com’è noto, è impossibile da prevedere). Il filosofo tedesco Helmuth Plessner, che aveva studiato l’uomo come “essere biologico” ma anche la sua peculiarità di animale dalle molteplici forme espressive, nel 1941 ne Il riso e il pianto descriveva le due espressioni più peculiari dell’uomo come i due momenti in cui la razionalità non risponde, e il corpo reagisce in una forma che erutta al di là del controllo.
Ma l’altra sera, mentre gli inviati si avvicinavano agli sfollati di Ussita, Visso e Castelsantangelo sul Nera, di lacrime non se ne trovavano: non c’erano morti su cui piangere, o meglio, solo lo sfregio del sisma al passaggio. Il terremoto si era già trasformato in qualcosa di più razionale, quasi rituale. E se l’Italia è uno dei paesi del Mediterraneo a più alto rischio sismico, la continua, ossessiva ricerca di eccezionalità dell’evento sembra quasi in contraddizione col suolo su cui camminiamo. I media hanno la loro parte di responsabilità: in Giappone, dove la mortalità per gli eventi sismici è ridotta al minimo, in caso di terremoto i giornali pubblicano informazioni utili alla popolazione, ma poco più. Per ogni evento, ripetere le stesse cose è un esercizio di stile inefficace, un riempitivo. E a forza di voler trovare a tutti i costi una giustificazione irrazionale per i morti (o per i sopravvissuti) tocca ricorrere a parole come apocalisse, o miracolo, invece di trattare il problema per quello che è.
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