Le ragioni della “deportazione” post terremoto
Il “no alla deportazione”, così spesso pronunciato anche dal presidente del Consiglio, serve a rassicurare ma può essere fuorviante. Teniamo conto di due premesse: la numerosità degli eventi sismici in atto e la spiegazione strutturale che ne danno gli esperti. Emerge una specificità del territorio interessato, rispetto all’insieme delle aree sismiche europee e si ipotizza un cambiamento in atto, del sottosuolo e del suolo di una vasta era del paese, che impone un ripensamento e una mappatura aggiornata del rischio sismico in Italia. Nelle rappresentazioni scientifiche prevalenti emerge una specificità italiana, sinora sottovalutata: la geografia della sismicità italiana non è un insieme, variegato e randomico, di territori a rischio.
Emerge, invece, una struttura: la penisola italiana distesa su una faglia estesa e su una linea di divisione di placche continentali in pressione opposta e su una dorsale, l’Appennino, lunga l’intera penisola e che si presenta, sempre più, come la linea di confine e di rilascio dell’energia alimentata dalla pressione delle placche. Nelle risposte a questa specificità italiana fa bene il premier a richiamare, a mio ricordo, per la prima volta le conseguenze che ne derivano, in termini di considerazione degli effetti, per l’intero continente europeo. C’è una rischiosità italiana, specifica e particolare, che deve avere un suo riconoscimento e considerazione anche nella valutazione degli strumenti, dei costi e delle scelte di bilancio della comunità. Non si tratta solo di quella sorta di solidarity compact richiamata da Renzi a sostegno di una flessibilità e alleggerimento dei vincoli che tengano conto dei costi aggiuntivi della ricostruzione. Si tratta di qualcosa di più. La riattrezzatura del territorio italiano, le politiche di riassetto e di risposta alle specificità dei fenomeni sismici in atto, vanno trattate come una dimensione nuova e continentale delle politiche europee.
Un analogo, se vogliamo, delle problematiche dell’immigrazione: l’Italia appare, nella geografia europea del rischio sismico, come una linea di confine in cui si concentra una specificità di fenomeni che vanno trattati, ormai, con un’ottica continentale. E non più solo di strumenti nazionali. Se questo è vero, starei attento a non risultare sbrigativi e demagogici, noi stessi, sul tema della ricostruzione. Concedere, ad esempio, ragioni o motivazioni affrettate al “no alla deportazione” può risultare contraddittorio rispetto alla valutazione della specificità e novità dei fenomeni sismici in atto. Se è vero quello che si dice sulla natura dei fenomeni evidenziati dagli eventi correnti, non ha alcun senso una prospettiva di ricostruzione che non contempli nuove sistemazioni urbanistiche, spostamenti e ridisegni della mappa abitativa degli appennini. Al punto anche da contemplare una revisione, nei limiti del possibile, di una geografia di urbanizzazione che è parte essenziale della tradizione e della storia del territorio italiano.
Può sembrare drammatico ma se gli esperti hanno ragione è inevitabile: dobbiamo convivere con fenomeni sismici di lunghissima portata e che scontano una conformazione, attuale e futura, del suolo italiano non di breve portata. Occorrerebbe dare questa consapevolezza. E, perlomeno, evitare semplificazioni sul tema della ridislocazione delle popolazioni: la lunga portata e la natura strutturale del rischio sismico sul nostro Appennino richiedono attenzione non solo alla natura materiale e fisica della riedificazione ma anche ai cambiamenti possibili da indurre, per ragioni di sicurezza, nella dislocazione delle densità abitative di quei territori. Occorre questo coraggio. Specie quando richiamiamo, giustamente, la consapevolezza continentale sulla natura e la portata del rischio sismico italiano. Del resto, la storia dei terremoti italiani dovrebbe averci dato illuminanti lezioni sulle conseguenze di logiche ricostruttive ispirate, ad esempio, al “No alle deportazioni”. Prendiamo l’esperienza del 1980. E della ricostruzione a Napoli. Pochi ricordano che il leitmotiv del post-terremoto a Napoli e in Campania fu, appunto, un’aspra contesa sul tema della “deportazione”.
Le macerie causate dal terremoto di Napoli del 1980 (immagine di Youtube)
Con questa dispregiativa allocuzione, nell’esperienza campana, si intese l’opposizione a ogni intenzione di ridisegno, di redistribuzione e trasformazione del territorio, di ridislocazione dei pesi abitativi e di superamento della conformazione del territorio campano segnato dalla opposizione tra conurbazione costiera e spopolamento delle zone interne che è stata una dei topos della tradizionale polemica meridionalista. Contro l’“occasione” della ricostruzione come redistribuzione della popolazione e dell’intensità abitativa prese corpo una polemica durissima che connotò come “deportazione” da evitare ogni ipotesi di diradazione e di diminuzione dell’affollamento abitativo emerse, nella discussione sulle strategie della ricostruzione, come opportunità da cogliere, nella tragedia del terremoto, per affrontare alcuni temi storici della “malsanità” (Gramsci) urbana della città e del territorio meridionale. Fu l’ennesima occasione persa. Allora la guida effettiva del processo alla “deportazione” venne presa da protagonisti, la camorra e il terrorismo rosso, che daranno alla vicenda del post-terremoto a Napoli e nel Sud una particolare impronta di tragicità.
Una parte consistente della politica, della cultura e dell’urbanistica di sinistra si piegò a un sostanziale ricatto. Che cercò di colorare e di vestire con motivazioni “sociali” e coprendole con il tradizionale lessico della opposizione alle colate di cemento, ai propositi speculativi e al malthusianesimo sociale dei ceti imprenditoriali dei costruttori meridionali. Un colossale travisamento. Alla prospettiva possibile di nuovi quartieri attrezzati e moderni, di un’espansione di Napoli, in connessione con le aree interne della “montagna” e della campagna colpite dal terremoto, in nuovi territori si sostituì una lugubre e immonda colata in zone già affollate della città tradizionale, pregiudicando per sempre l’identità della città. E delle stesse aree interne colpite dal terremoto. In nome della conservazione dell’identità urbana si confuse il “No alla deportazione” con la resa alla ricostruzione di tutte le abitazioni negli stessi luoghi e negli stessi pesi numerici in cui le aveva sorprese l’evento del terremoto. Con due conseguenze deleterie: per far posto alle abitazioni da ricostruire, lì dove erano, si rinunciò a privilegiare la dotazione di spazi, di verde, di sicurezza e servizi come sostitutivi di parte dell’affollamento urbano secolare di Napoli; per far spazio alle abitazioni lì dove erano in precedenza ci si dovette piegare anche ad un abbassamento dei criteri qualitativi e dei materiali delle abitazioni.
Privilegiare il “ritorno” della popolazione negli stessi spazi portò a sottrarre spazi ulteriori a servizi, fabbriche e altre attività. La deindustrializzazione napoletana cominciò con quella scelta contro la “deportazione”. L’esito sarà la mostruosità rappresentata nell’iconografia, nella letteratura e nelle rappresentazione contemporanea della “malsanità” di Napoli: i nomi tristemente noti di Scampia, delle Vele di Secondigliano, del centro antico ponteggiato, di Barra, di Pianura o Ponticelli. Fu una ferita aperta nel corpo della più grande delle città meridionali, che ha condizionato, per quasi 40 anni, la storia di Napoli e del Mezzogiorno. Fu una grande resa della cultura e della politica di sinistra e la rinuncia, ammantata di malintesa difesa dell’identità sociale di Napoli, all’occasione, pressoché unica nella storia di Napoli, di utilizzare le risorse della ricostruzione per modificare alcune condizioni storico-urbanistiche dell’arretratezza meridionale e del lascito delle “mani sulla città”. Fu un disastro edilizio e sociale. Da cui Napoli deve ancora riprendersi.