Presunto terrorista ma libero. L'anomalia italiana
Sempre più inchieste franano. Il caso del mullah Krekar. “Un problema serissimo”
Milano. Ogni volta, o quasi, che vengono arrestati dei presunti terroristi islamici, il Tribunale del riesame li rilascia. Perché gli indizi raccolti nella fase delle indagini preliminari che portano a emettere un’ordinanza di custodia cautelare franano davanti alla prova dei fatti. O non vengono ritenuti credibili. L’ultimo caso riguarda la cellula europea guidata dalla Norvegia dal mullah Krekar. Formata da iracheni curdi di Ansar al Islam, aveva tra i suoi membri un kosovaro che viveva in Italia e che nel 2013 s’era recato in Siria per stringere un patto con il Califfato. Krekar era coinvolto in un’inchiesta dell’antiterrorismo italiano perché sospettato di essere a capo di un network europeo che avrebbe pianificato attentati in occidente. Un anno fa era stato arrestato in Norvegia e l’Italia aveva chiesto la sua estradizione, che la Corte di Oslo aveva accolto. Ma il 25 novembre scorso, Roma ha ritirato la richiesta. E ora il gip di Trento ha revocato l’ordinanza cautelare nei confronti del leader religioso, che è stato rilasciato. Perché? Alla Procura di Trento, quando sette dei quindici indagati furono rilasciati, dopo gli arresti nel novembre del 2015, il procuratore capo Giuseppe Amato affermò: “Non c’erano indizi gravi per i sette indagati. Un contatto informatico non significa automaticamente aver partecipato a un’associazione terroristica”.
Dunque non basta, per la normativa italiana che punisce con pene severe il terrorismo internazionale, l’aver partecipato al jihad attraverso la rete. Perché, secondo le ultime norme sulla custodia cautelare, gli indizi devono essere attuali e alcuni indagati erano in realtà spariti dall’orizzonte investigativo da tempo. Il riferimento è alle modifiche dell’articolo 274 del codice di procedura penale che disciplina la custodia cautelare. Con la legge 47 del 16 aprile scorso sono stati modificati i presupposti generali necessari per poter richiedere le misure cautelari: il pericolo di fuga o la possibilità di compiere reati gravi deve essere, oltre che concreto, attuale. Una norma che sta evitando il carcere soprattutto nei casi più complessi dove i tempi per la richiesta cautelare e la relativa decisione del gip sono spesso lunghissimi. E così ci troviamo davanti a un ossimoro: da una parte vengono riequilibrati i criteri per emettere un’ordinanza di custodia cautelare che spesso è stata usata come una spada di Damocle per convincere gli indagati finiti in carcere a confessare in cambio della libertà, ma contemporaneamente in materia di contrasto al terrorismo questo principio più garantista crea impedimenti per riuscire a tenere in carcere islamisti che sono attivi nel proselitismo del jihad perché è difficile, talvolta impossibile, dimostrare che gli integralisti siano arrivati ad avere un piano operativo nella progettazione di un attentato.
Infatti l’elenco dei presunti terroristi rimessi in libertà è lunghissimo e il Viminale spesso opta per le espulsioni di soggetti considerati un pericolo per la sicurezza nazionale. Una scelta che però potrebbe diventare un boomerang, visto che alimenta l’odio di coloro che vengono rimandati nei loro paesi di origine per aver fatto apologia sui social network. Talvolta si tratta di indagini condotte frettolosamente che non riescono a dimostrare in sede giudiziaria la pericolosità di molti attivisti della galassia fondamentalista. Ma in molti casi, anche davanti a inchieste giudiziarie fatte con tutti i crismi, il tribunale del riesame rimette in libertà reclutatori di terroristi. Come è successo nel caso dell’albanese Elezi Alban. Estradato in Italia, è stato rilasciato perché non era riuscito a far partire Ben Ammar Mahmoud: aveva solo 17 anni quando parlò delle sue aspirazioni jihadiste, ma fu dissuaso e salvato dai genitori. “Il problema è serissimo”, ha osservato più volte Roberto Rossi. “In altri paesi basta aver combattuto in Siria o Iraq per avere la prova e sostenere un processo, in Italia c’è bisogno che il soggetto combattente partecipi effettivamente al gruppo terroristico o compia un reato sul nostro territorio”. Ed è difficile – se non impossibile – dimostrare che chi è partito per la Siria abbia commesso atti di terrorismo. Ma quanti sono, oggi, i detenuti per terrorismo islamico? Ci sono 38 accusati di 270 bis nel sistema penitenziario italiano. Il ministro dell’Interno Alfano, nella conferenza stampa di fine anno del 2015, aveva parlato però di 259 arrestati “per fatti legati al terrorismo”.
In realtà, quelli con l’accusa specifica sono stati solo 23, gli altri sono indagati per reati collegati. In Lombardia accade spesso che cittadini europei islamisti vengano accompagnati al confine dopo essere rientrati dai teatri di guerra, usando il nostro paese come via di transito. Non si può fermarli, a meno che ci sia un’ordinanza di custodia cautelare nei loro confronti. Perciò anche con i foreign fighter ci si limita a espellerli, avvisando le autorità degli altri paesi europei, che a volte manco rispondono o danno riscontro alle nostre segnalazioni. Altro caso di rilascio di un presunto terrorista è stato quello del kosovaro Gaffur Dibrani, arrestato due settimane fa a Fiesse, in provincia di Brescia, con l’accusa di apologia del terrorismo: il tribunale del riesame di Brescia ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare. Sbagliano le procure? O c’è un problema nei tribunali? E’ intorno a questo dilemma che discute da tempo la magistratura. Ecco perché il parlamentare Stefano Dambruoso, ex magistrato, impegnato sul fronte di una legge per favorire la de-radicalizzazione che si diffonde fra le seconde generazioni di immigrati in tempi velocissimi, aveva proposto sezioni specializzate sul terrorismo. Sul piano giuridico, senza le competenze e le conoscenze necessarie, le indagini franano, anni di lavoro si dissolvono.
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