L'immigrazione incontrollata e il caso Amri: lezioni per l'Italia
Il problema principale è costituito da un’area di clandestinità che cresce al ritmo di 100 mila unità all’anno. Un’area che finora è stata semplicemente ignorata
In un sistema sicurezza – quello italiano – che è probabilmente il migliore in Europa, la vicenda di Anis Amri fa emergere l’inadeguatezza delle scelte politiche degli ultimi 3-4 anni in tema di immigrazione. Amri non viene in Italia per compiere un attentato, vi giunge su un barcone, commette reati comuni, viene giudicato, condannato e condotto in carcere, al cui interno è “radicalizzato”: terminata l’espiazione, la sua potenzialità criminale lo fa collocare per breve tempo in un Cie, dal quale è poi rimesso in libertà, con un decreto di espulsione non eseguito. Per la parte corrispondente alla identificazione, alla punizione e all’osservazione carceraria il sistema ha funzionato. Le lacune sono nel seguito: si è detto che l’espulsione non è stata effettiva perché la Tunisia non ha collaborato per il suo rientro, e che è stato fatto uscire dal Cie perché i posti sono pochi. Di fatto, un personaggio che – in base alle leggi esistenti in Italia e in Europa – mai avrebbe potuto circolare liberamente si è invece mosso senza ostacoli, fino alla strage del 19 dicembre a Berlino. Quanti personaggi come Amri godono oggi dell’agibilità a lui così generosamente riconosciuta?
Qualche mese fa il precedente premier italiano, in una delle sue frequenti polemiche verbali con la Commissione europea – mai seguite da voti contrari nei Consigli dei ministri Ue –, annunciava che se l’Europa avesse continuato a non dare risposte sull’immigrazione l’Italia avrebbe fatto da sola: non ne è seguito nulla. Che cosa può un singolo Stato in una situazione così complessa, che esige sia l’intervento della Comunità internazionale nei luoghi di più consistente esodo di migranti, sia la corresponsabilità di ciascun componente dell’Ue? Non può risolvere la questione; può ridurne gli effetti negativi incidendo sui fronti collegati dell’asilo e delle espulsioni. Qualche cifra rende meglio l’idea: dal 1° gennaio al 30 dicembre 2016 le persone giunte via mare in Italia sono state 181.283: il 17.84 per cento in più del 2015. Non tutti coloro che arrivano presentano una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato; nel 2015, a fronte di 153.842 sbarcati le istanze sono state 83.970. Che fine hanno fatto gli altri 70.000? Si tratta a tutti gli effetti di persone che non hanno alcun titolo di regolare soggiorno: sono privi perfino di quel permesso provvisorio rilasciato nell’attesa che una Commissione asilo esamini la domanda. Sempre nel 2015, rispetto alle domande esaminate i dinieghi sono stati il 58 per cento (41.503), lo status di rifugiato è stato riconosciuto nel 5 per cento dei casi, mentre il 36 per cento circa ha ricevuto protezione sussidiaria o umanitaria. Questo vuol dire che dei migranti entrati in Italia nel solo 2015 oltre 110.000 non avevano alcun titolo per restarvi: o perché la loro domanda di asilo è stata respinta o perché non l’hanno nemmeno inoltrata. Con i più consistenti arrivi del 2016 il dato è cresciuto in proporzione e in assoluto. Sabato scorso i media hanno fornito il numero di soggetti che nel 2016 hanno avuto una espulsione effettiva, con riaccompagnamento nel Paese di origine: 5.789, appena il 5 per cento degli irregolari arrivati.
Il problema n. 1 è costituito da un’area di clandestinità che cresce al ritmo di 100.000 unità all’anno. Un’area che finora è stata semplicemente ignorata: fino a qualche mese fa la gran parte di loro non erano neanche identificati, nella speranza che lasciassero l’Italia per raggiungere altri stati Ue. Passare dal disinteresse politico per il fenomeno alla coerente applicazione della legge – europea e italiana –, che impone di espellerli tutti, oggi si scontra con la quantità di persone che andrebbero ricondotte a casa. Si può iniziare con quelli – come Amri – segnalati come pericolosi durante l’osservazione in carcere o che commettono reati che, per via dei benefici riconosciuti, non conducono in un istituto di pena. Perché una espulsione sia effettiva è necessario: a) identificare in modo sicuro il soggetto e la sua nazionalità; b) accordarsi con lo Stato di origine perché lo riprenda con sé; c) impedire che egli si dilegui finché sono in corso l’identificazione e la trattativa con lo Stato in questione. Servono energie, lavoro dedicato e tempo. Quanto ad a), vanno potenziati i c.d. hotspot, aperti proprio al fine della identificazione su insistenza delle istituzioni Ue quando la “furbizia” della mancata identificazione è apparsa palese: attualmente sono soltanto 5, ciascuno con poche centinaia di posti, collocati in corrispondenza dei luoghi dello sbarco. Quanto a b), da sempre gli Stati di origine resistono alla riconsegna di propri cittadini, o rifiutando la collaborazione o realizzandola al “minimo sindacale” (5-7 per volta sui voli di linea); da sempre questi ostacoli sono superati con una interlocuzione diretta, che inserisca la gestione dei flussi migratori nel quadro più ampio della cooperazione: se non si negozia non si fa un passo in avanti. Quanto a c), la capienza dei Cie – ridotti ad appena 5 – è segnalata oggi a 1.601 posti, ma la ricettività effettiva è di 359, cioè nulla.
È interessante che il nuovo ministro dell’Interno abbia indicato come priorità la funzionalità del sistema delle espulsioni e l’ampliamento della rete Cie, immaginandone uno per ogni regione. E’ un passaggio indispensabile: la sola garanzia di rimpatrio dell’irregolare è la sua collocazione in una struttura di sicurezza che ne precluda la fuga. I tempi di permanenza al suo interno sono cambiati nel corso degli anni: ora ci si è attestati su un massimo normativo di 90 giorni, estensibili a 12 mesi – con autorizzazioni intermedie da parte dell’autorità giudiziaria – se il soggetto costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Sono tempi tali da permettere l’identificazione e l’accordo con lo Stato d’origine. Un Cie capiente in ogni regione permette un controllo della clandestinità più agganciato al territorio, fornisce risposte tempestive, evita la dispersione di energie dei poliziotti costretti a viaggiare dalla Toscana alla Sicilia per collocare l’irregolare in un Cie. Esige la collaborazione di tutti: per una regione e chi ci abita avere un Cie al proprio interno è garanzia di sicurezza; per le forze politiche, al di là delle diversità ideologiche, permette di isolare chi è realmente pericoloso, limitando l’indiscriminata reazione anti-migrante delle popolazioni. È legittimo contrastare questa ipotesi di lavoro, come si è fatto più volte in passato, provocando la chiusura di quasi tutti i Cie funzionanti: a condizione di rassegnarsi alla libera circolazione di non pochi Amri che sono tra noi.