La parabola del santo pataccaro
Non c’era il movente, non c’è più il principale teste d’accusa. Dopo l’arresto di Massimo Ciancimino, della Trattativa, il processo montato da Ingroia e dai giornalisti che lo fiancheggiavano non resta più nulla
Oggi, in apertura di udienza, i pm del processo sulla fantomatica Trattativa dovranno comunicare al presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, che il principale testimone dell’accusa, Massimo Ciancimino, è finito ancora una volta in galera: la Cassazione ha reso definitiva una condanna a tre anni di carcere per detenzione abusiva di materiale esplosivo. Nel luglio del 2011, il figlio di don Vito fece ritrovare nel giardino della sua casa di Palermo tredici candelotti di dinamite, una santabarbara in grado di fare saltare per aria un intero palazzo. E li fece ritrovare dicendo che quell’arsenale gli era stato recapitato da gentaglia sconosciuta in cui unico obiettivo era quello di terrorizzarlo e di costringerlo a interrompere la sua fitta collaborazione con Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che è stato maestro concertatore, arrangiatore e direttore d’orchestra della mastodontica inchiesta sul patto scellerato tra lo Stato e i boss di Cosa nostra.
Né i giudici di merito né la Cassazione hanno creduto a una sola parola delle tante pronunciate da Ciancimino per dare credibilità alle proprie bugie. Quella dell’altro ieri, del resto, è la seconda condanna definitiva: la prima, a due anni e otto mesi, se l’era beccata per il riciclaggio di un tesoretto che il padre, collegato ai sanguinari corleonesi di Totò Riina, aveva nascosto accuratamente all’estero. Sulla prima condanna era intervenuto l’indulto. Ma il beneficio, alla luce della seconda mazzata, è finito a gambe per aria e Massimuccio, fatti i dovuti calcoli, dovrà cumulativamente scontare una pena di quattro anni e cinque mesi. Sempre che, nel frattempo, non arrivino altre condanne. Il casellario giudiziario dice che egli è sotto processo per calunnia a Caltanissetta e a Bologna: dovrà rispondere delle accuse fasulle lanciate, durante i colloqui con Ingroia, sia nei confronti di Gianni De Gennaro, che fu capo della Criminalpol negli anni roventi delle stragi, e poi capo della Polizia; sia nei confronti di Rosario Piraino, un agente dei servizi segreti, al quale il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo ha attribuito minacce che quel poveruomo non aveva mai fatto.
Oggi spetterà probabilmente al pubblico ministero Nino Di Matteo illustrare alla Corte le ultime peripezie giudiziarie del testimone Massimo Ciancimino. E non sarà certamente un momento esaltante per un processo che già pesta acqua nel mortaio da oltre tre anni e mezzo. I giudici, ai quali non è certamente mancata la pazienza, hanno assistito finora soltanto a una girandola di chiacchiere e a una filastrocca di rancori cuciti insieme da alcuni carabinieri contro quegli ufficiali – i generali Mario Mori e Antonio Subranni – che negli anni della mattanza mafiosa tentarono tutto il possibile per arginare quel fiume di sangue.
Prima di queste chiacchiere, bene o male c’erano le patacche che Ciancimino aveva consegnato a Ingroia e che Ingroia aveva con tanta abilità riversato nel grande circo dei giornali e dei talk-show. Patacche che furono subito spese al più alto livello della politica e della comunicazione. Chi non ricorda la sicumera con la quale Michele Santoro e Marco Travaglio presentavano al pubblico dei telespettatori la nuova “icona dell’antimafia”? Chi non ricorda le accuse e i veleni che il figlio di don Vito, trasformatosi per l’occorrenza nel ventriloquo del padre, spacciava per verità e rivelazioni?
Ci fu, nei mesi che precedettero le elezioni nazionali del 2013, un’eccitazione grandguignolesca durante la quale Ingroia e Ciancimino credettero di essere gli unici in grado di riscrivere la storia d’Italia. Una storia criminale, ovviamente, fatta di complicità e cospirazioni, logge segrete e trame oscure, ricatti e compromissioni.
Si puntarono le armi persino sul Quirinale, si intercettarono le telefonate del Capo dello Stato, si interrogarono generali e grand commis, si convocarono ex ministri ed ex boiardi; si tratteggiò, insomma, un romanzo infarcito di tali e tante nefandezze che Ingroia sembrò all’improvviso incarnare l’uomo inviato dalla provvidenza per liberare la Sicilia e l’Italia tutta dalla schiavitù del malaffare.
Non senza i colpi di scena, naturalmente: come quella furbesca trasferta in Guatemala, che dava la possibilità al magistrato palermitano di collegarsi, da una poltrona sistemata tra le palmette del Centro America, con la trasmissione di Santoro senza violare, si fa per dire, il segreto istruttorio; o come l’improvviso abbraccio che Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo martire dell’antimafia, concesse in una pubblica piazza al figlio del mafioso don Vito, assegnando così un crisma di “verità e giustizia” a una stagione che prometteva finalmente di illuminare, con un processo, i penetrali del tempio mafioso.
Ci furono parecchie manovre attorno a quella inchiesta. Ci furono pupi e pupari. E ci fu soprattutto Ciancimino, che nell’arco di due anni, ebbe almeno cento colloqui con Ingroia. Lo annota Marina Petruzzella, il giudice che ha assolto con rito abbreviato l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, trascinato anche lui nelle sabbie mobili di un processo senza capo né coda. Dopo avere esaminato tutti i verbali di interrogatorio, e non solo i quattro – quattro su cento – ritenuti decisivi dalla Procura palermitana, la dottoressa Petruzzella è arrivata a formulare un giudizio impietoso. A suo parere, dai colloqui tra il picciotto e il magistrato “salta agli occhi la forte suggestionabilità” del giovane Ciancimino “con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai pm, frammista a una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”.
Povero pataccaro, verrebbe da dire. Lo hanno “impupato” per benino quando c’era da preparare, in televisione e sui giornali, la campagna elettorale di Ingroia e lo hanno mollato al suo destino dopo lo zero virgola assegnato nel 2013 dagli elettori italiani all’ambiziosissimo magistrato; lo hanno portato sugli altari, come Nostra Signora della Redenzione, quando c’era da montare un’inchiesta capace di sputtanare tutta una classe politica e lo hanno abbandonato nei sottoscala dell’infamia quando hanno visto che il “colossale processo del secolo” non riusciva a impastare nient’altro che chiacchiere e rancori.
Martedì scorso, quando la “quasi icona dell’antimafia”, secondo la definizione coniata dallo stesso Ingroia, è finita miseramente dietro le sbarre, nessuno di quelli che hanno mangiato e bevuto sulle sue patacche ha levato un sibilo di pietà o di rimorso. Vedremo che cosa succederà oggi nell’aula bunker dopo la comunicazione dei pm. Non è da escludere, sul piano teorico, che un avvocato, dai banchi della difesa, possa formulare una qualche domanda insidiosa, ma è molto più probabile che la Corte finisca per ingoiare in silenzio anche quest’ultimo boccone. Del processo montato con tanto ardimento da Ingroia e dai giornalisti che lo fiancheggiavano non resta più nulla: non c’era un movente, perché i boss che avrebbero partecipato all’improbabile Trattativa sono tutti murati a vita, dentro il carcere duro; e non c’è più il principale teste d’accusa perché le prove consegnate da Ciancimino nelle mani di Ingroia si sono rivelate patacche, nient’altro che patacche.
Sono inafferrabili anche i giudici e i magistrati che hanno voluto e costruito questo processo. Un processo di “cenere e fango”, direbbe Giobbe. Ingroia, dopo il flop elettorale suo e del partitino che in fretta e furia aveva fondato per sfruttare la popolarità della Trattativa, ha lasciato la toga e ha trovato rifugio in un caldo posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal fraternissimo amico Rosario Crocetta, governatore della Sicilia; mentre Piergiorgio Morosini, il gip che conferì all’inchiesta una dignità processuale e firmò il rinvio a giudizio degli undici imputati, è stato eletto al Consiglio superiore della magistratura dove nessuno, ovviamente, gli chiederà conto e ragione di quella scelta. Meno che meno i suoi colleghi: cane non mangia cane. E se il richiamo al cane vi sembra un filino volgaruccio, c’è sempre l’ammonimento di Fernando Pessoa, grande poeta portoghese: “La Verità né venne né se ne andò. Mutò l’errore”.
generazione ansiosa