Una storia privata su Tortora ricorda il dramma delle ingiustizie di oggi
Il costo degli errori della giustizia non è solo economico
Gentile Direttore, incorniciato, nel mio studio, c’è un foglio a righe scritto a penna, ingiallito dal trascorrere del tempo. E’ una lettera, datata 30 agosto 1983. Ero appena adolescente quando un detenuto, dal carcere di Bergamo, la fece recapitare a mio padre Raffaele e da allora fa parte dei ricordi di famiglia, esposta come una reliquia laica. La grafia è ordinata, ritmica, chiarissima. Il ragionamento lucido, di chi ha meditato a lungo: “Oggi – si legge – so cose che mai avrei sospettato. Ma ciò che più mi indigna, a parte la stregonesca, medievale iniquità del rito, è questa Giustizia “in ferie”, come una rivendita di gelati, e questa spazzatura umana (tale è la considerazione del cittadino per certi giudici) lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri: piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti”. Una manciata di righe, che culminano nel grido di implorazione di chi non ha perso la speranza: “Fate qualcosa, ve ne prego”. Poi la firma, un estroso trionfo di curve, unico guizzo nel rigore della pagina: Enzo Tortora.
Fate qualcosa: l’appello di Tortora ci investe tutti, ancora oggi. La sua vicenda umana e giudiziaria resta un potente simbolo collettivo. E’ un faro per le nuove generazioni. Un monito per una politica (non mi sottraggo all’autocritica) che sul garantismo e i diritti continua a spendere tante parole, senza riuscire a tradurle in atti concreti. Basta osservare i numeri: dal 1992 (anno delle prime liquidazioni) a oggi, sono state oltre 25 mila le persone private della libertà personale e poi indennizzate dallo Stato per ingiusta detenzione, con una spesa complessiva per il contribuente di 648 milioni di euro. E se sommiamo a questi le vittime degli errori giudiziari arriviamo quasi a 700 milioni di euro. Praticamente uno stadio di calcio gremito che ha chiesto e ottenuto l’indennizzo. Per non parlare di coloro che non hanno neppure fatto richiesta. Parliamo di una media di circa mille casi l’anno. Nel 2016 le autorizzazioni sono state 1001: indennizzi per 42 milioni di euro.
Ma quale cifra può davvero risarcire il dramma personale di chi deve affrontare le conseguenze di una giustizia che sbaglia e ammette di aver sbagliato? Questo è il punto. L’enorme, vergognoso dispendio di risorse pubbliche è solo un aspetto marginale del problema. Anche in presenza del più cospicuo indennizzo, il marchio indelebile sulla persona non si cancella e la dignità strappata – davanti agli occhi della comunità, dei colleghi, dei propri cari, di un figlio – è estremamente difficile da recuperare. Con effetti traumatici soprattutto per le famiglie, che in molti casi ne escono distrutte. Ecco perché è così importante accendere i riflettori sul tema. Ben vengano allora le iniziative, gli articoli di giornale, le testimonianze, se ci obbligano a guardare in faccia il problema, a interrogarci sulle cause, sulle responsabilità e sulle possibili soluzioni.
Con questa lente di ingrandimento, potremo allora riconoscere alcuni sintomi di una grave patologia del nostro sistema processuale. Come non considerare che gli indennizzi per ingiusta detenzione in Italia, in termini di spesa e numero di persone indennizzate, sono fortemente disomogenei sul territorio nazionale? Abbiamo tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono numerosissime e fori dove si registrano solo sporadicamente. Ma il tema ha molto a che fare anche con la lunghezza dei processi: ognuno di questi indennizzi avviene infatti generalmente dopo oltre 10 anni dall’ingiusta carcerazione subìta, perché la sentenza definitiva che accerta l’innocenza dell’imputato non arriva certo in tempi contenuti. Questo è forse uno degli aspetti più odiosi, perché nel frattempo la persona rimane esposta al pregiudizio e al sospetto. C’è poi la questione dell’abuso della carcerazione preventiva: non è un mistero che la misura cautelare venga utilizzata spesso per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa. Ma c’è anche un altro aspetto significativo che non possiamo trascurare: la responsabilità disciplinare dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla Legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Va riconosciuto, comunque, che una maggiore sensibilità, anche politica, sulla questione si sta diffondendo. Un segnale, per esempio, è stato il voto unanime della Camera alla norma, inserita nel Ddl sul Processo Penale, che prevede una relazione annuale al Parlamento che contenga i dati relativi alle sentenze di riparazione per ingiusta detenzione (con specificazione delle ragioni di accoglimento e dell’entità delle riparazioni) e al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei confronti di magistrati per le ingiuste detenzioni accertate, con indicazione dell’esito, ove conclusi. È già qualcosa, ma non basta. Finché assisteremo anche a un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata, dovremo batterci con forza: la civiltà giuridica di un Paese si misura da questi elementi. Se dibattessimo meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale, non sarebbe male.
Enrico Costa, ministro degli Affari Regionali
La lettera di Tortora al papà del ministro Costa
Carcere di Bergamo 30 Agosto 1983
Mio caro Raffaele,
sono Enzo Tortora. Grazie per il tuo messaggio.
Almeno dal mio dolore (non puoi immaginare lo schianto, per questa montatura ignobile) servisse a qualcosa. Guai, se non servisse…
Oggi so cose che mai avrei sospettato. Ma ciò che più mi indigna, a parte la stregonesca, medievale iniquità del rito, è questa Giustizia “in ferie”, come una rivendita di gelati, e questa spazzatura umana (tale è la considerazione del cittadino per certi giudici) lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri: piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti.
Fate qualcosa, ve ne prego.
Ripeto il mio grazie. Ma rinnovo la mia speranza.
Ti abbraccio
Enzo Tortora