Il mondo di mezzo dell'informazione sul caso Mafia Capitale
Dopo i flop romani, urge un grande processo sulla post truth justice
Dopo le ben 113 archiviazioni volute ieri dal gip di Roma Flavia Costantini, nell’ambito del maxi processo su Mafia Capitale, a poco più di due anni dai primi arresti, l’inchiesta portata avanti dalla procura di Roma entra in una nuova fase giudiziaria all’interno della quale la formula Mafia Capitale andrebbe sostituita con una nuova espressione più calzante per inquadrare lo stato dell’arte dell’inchiesta del secolo: fiction capitale.
Nel giro di poche settimane – nel silenzio complice e imbarazzato dei giornaloni che hanno sperato di trasferire a Roma la grancassa in cerca d’autore del circo mediatico-giudiziario sezione professionisti dell’antimafia – le indagini che avrebbero dovuto fotografare in modo inequivocabile un sistema mafioso all’interno del quale “la politica è ridotta a puro strumento dell’organizzazione criminale” (Ezio Mauro, 3 dicembre 2014) hanno dovuto fare i conti con i fatti.
Ieri, tra le 113 archiviazioni, cinque indagati hanno visto cadere l’accusa di associazione di stampo mafioso (Alemanno, Mancini, Curti, Leto e Dell'Anno). Pochi giorni prima, a un collaboratore di Buzzi, Emilio Gammuto, uno dei presunti capi dell’organizzazione che avrebbe ridotto la politica a puro strumento della mafia, la Corte d’appello aveva cancellato l’aggravante mafiosa. La stessa Corte, poco tempo prima, aveva detto che a Ostia, ovvero nel cuore della presunta “cupola romana”, non c’era traccia di mafia e da ciò che era stato raccolto nel corso del processo non si poteva ricondurre il tutto “in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione”.
A questo punto della storia, dunque, non si tratta più di sostenere se la mafia a Roma esista o no e non si tratta neppure di dire se sia stato giusto gettare una colata di fango sulla capitale trasformando una teoria da fiction in una tesi processuale. Dopo una sfilza di archiviazioni che ha portato a 14 gli imputati accusati di 416 bis – tra i quali un solo politico rimasto sotto indagine (l’ex Pdl Luca Gramazio) – bisogna fare un passo in avanti e chiedersi come sia stato possibile arrivare fino a questo punto. Il problema non è solo fare i conti con un’inchiesta che si sgonfia. Il problema è fare i conti con la mancanza di anticorpi del nostro sistema di informazione: una condizione patologica che contribuisce ad alimentare un circolo vizioso in base al quale ciò che dice una procura non è una verità parziale che deve essere sempre suffragata da fatti ma è una verità assoluta impossibile da mettere in discussione.
L’inchiesta su Mafia Capitale era nata per portare alla luce “un mondo di mezzo”. Ma a due anni dalla detonazione dell’inchiesta, ora che la mafia è diventata fiction, il processo è destinato a capovolgersi e il mondo di mezzo che è destinato a finire sotto esame non è solo quello di Buzzi e Carminati ma è anche quello di chi ha permesso che una piccola inchiesta sulla corruzione, non così diversa da quelle che Roma conosce più o meno dai tempi di Augusto, 27 avanti Cristo, diventasse una bomba politica e giudiziaria (citofonare Raggi). Se il mondo di mezzo è pieno di reati (molti cravattari), non si può dire che il mondo di mezzo dell’informazione, accecato dalla sua incontenibile propensione a rincorrere i profeti dell’onestà, non sia pieno di acciacchi e di peccati. A Roma (forse se ne sta accorgendo anche la procura) la mafia non si vede. Ma siamo certi che i professionisti dell’antimafia di fronte alle notizie vere preferiranno il meraviglioso mondo della post truth justice.