La contabilità di Mani pulite non dimostra la corruzione, ma il fallimento della rivoluzione per via giudiziaria-populista
L'operazione fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta
Armarsi di pallottoliere è probabilmente il modo più congruo per affrontare il venticinquesimo “anniversario” di Mani pulite, schivando un certo schifo per le cose che si leggono oggi e senza dover ripercorrere tutta quanta la storia di questo giornale (rileggete Novantatré di Mattia Feltri, la ricostruzione giorno per giorno di quell’anno scritta nel 2003 per il Foglio, basta).
Aiuta nella contabilità Repubblica, che ieri faceva “lezione” coi numeri: “Ben 4.520 persone vennero indagate nel solo filone milanese di Mani pulite”. Bisogna prendere sul serio queste cifre, quelle del “pool”. Su 4.520 iscritti nel registro degli indagati, derivarono 3.200 richieste di rinvio a giudizio (1.320 atti trasmessi ad altre autorità giudiziarie). Delle 3.200 persone giudicate a Milano: 620 condanne e patteggiamenti del gip, 635 proscioglimenti del gip (+15). Delle 1.322 persone rinviate a giudizio: 661 condanne, 476 assoluzioni. (Nel 2003 c’erano ancora 117 casi pendenti: la rapidità dell’indagine-lampo). Dunque in totale, su 4.520 persone finite nelle onnipotenti mani del pool, e su 3.200 rinviati a giudizio, le condanne sono 1.281 (965 per patteggiamento) e 1.111 le assoluzioni e proscioglimenti. Meno della metà dei processati è stata condannata, quasi altrettanto assolta. Significa che più del 50 per cento di quei processi e di quegli arresti (“noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”, proclamò Francesco Saverio Borrelli), potevano non essere fatti, o non andavano fatti. Se valutasse il tasso di produttività del pool, e di efficienza negli esiti processuali, l’amministrazione dello stato avrebbe di che lagnarsi.
Questo permette di dire due cose, fuori dalle polemiche e dalle retoriche. Quando oggi un ex magistrato del pool come Piercamillo Davigo – e alcuni altri con lui, tra cui certi bonapartisti ex cronisti di procura – sostiene che il fallimento di Mani pulite consiste nel fatto che la corruzione non è stata debellata, anzi è aumentata (“non si vergognano più”, è l’estremizzazione di Davigo), dice una cosa oggettivamente falsa. Non si poteva debellare la corruzione di un “sistema” con quei mezzi, cioè forzando le procedure e impedendo manu militari al sistema di riformarsi. Il fallimento dell’operazione – e dell’ideologia giudiziaria – di Mani pulite risiede nel fatto che fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta (la “dazione ambientale” sembrò assumere la concretezza di una mela rubata dal cesto). E questo, oltre alle ingiuste accuse e detenzioni, e alle conseguenze politiche prodotte (“il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”, Italo Ghitti), ha impedito di individuare i veri reati (c’erano). La seconda cosa è che il fallimento di Mani pulite è soprattutto il fallimento delle false aspettative messianiche suscitate nell’opinione pubblica da forzature mediatiche e politiche miopi o di marca populista. I danni li vediamo ancora oggi.
A questa contabilità andrebbero aggiunti i troppi suicidi, 32 tra il 1992 e il 1994 (“si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”, Gerardo D’Ambrosio su Sergio Moroni). Ma il pallottoliere lo teniamo nel cassetto, per la prossima occasione.