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Il declino di Roma ha come simbolo una tettoia diroccata

Fabio Sabatini

Lo stadio di Tor di Valle è un bivio per la capitale: degradata “città museo” o metropoli moderna e per questo davvero “eterna”

In questa fase storica il comune non può spendere, viste le condizioni disastrose del bilancio cittadino. Soltanto i privati possiedono i capitali di cui Roma ha bisogno per preservare, riqualificare e sviluppare il territorio. A chi governa la città, e in generale alla politica, spetta un compito fondamentale: stimolare gli investimenti e guidarli nell’interesse dei cittadini. Approfittare delle risorse dei privati per migliorare le infrastrutture e riqualificare il territorio a costo zero. Esattamente ciò che ha fatto la precedente amministrazione, che ha contrattato con gli investitori condizioni molto vantaggiose in cambio del permesso di costruire lo stadio. Lo stadio non è un “regalo da un miliardo e mezzo”, com’è stato sostenuto da esponenti della giunta Raggi. Un miliardo e mezzo è l’ammontare complessivo dell’investimento, interamente a carico dei privati. Come già spiegato sul Foglio, la somma comprende 450 milioni di euro per opere pubbliche e, secondo le stime, genererebbe un aumento del pil provinciale dell’1,5 per cento medio annuo nei 9 anni successivi all’inizio dei lavori, una riduzione della disoccupazione di 0,8 punti percentuali e un aumento del gettito fiscale di 1,4 miliardi, di cui almeno 30 milioni per le casse esangui del comune (che potrebbe utilizzarli per altri progetti).

Per la città sarebbe un precedente decisivo, primo passo di un cambiamento destinato, nelle speranze, a coinvolgere nuovi investitori e contagiare le altre periferie, oggi moribonde. Con esso si stabilirebbe il principio che, per usare il suolo cittadino, i costruttori devono prima compensare la collettività con opere pubbliche e riqualificazione urbana. L’affermazione di tale modello di cooperazione tra pubblico e privato consentirebbe a Roma di competere, finalmente, con le grandi capitali europee in innovazione, efficienza e attrattività.

 

Le prospettive di progresso, invece, rischiano di arenarsi tra i detriti di una tettoia diroccata, con buona pace dell’interesse collettivo e del futuro della città. Come ormai noto, la Soprintendenza romana all’Archeologia e alle Belle arti ha posto il vincolo paesaggistico sulla tribuna pericolante e in parte coperta d’amianto di un ippodromo fatiscente costruito per le Olimpiadi del 1960, la cui tettoia aveva, per l’epoca, un design molto originale. Non basterà spostare, restaurare e conservare la tettoia, come i proponenti del progetto avrebbero fatto. La Soprintendenza vuole, infatti, che nell’area circostante nulla ostruisca la vista del rudere che, si vuole far credere, è parte caratterizzante del paesaggio. Eppure oggi nessuno può “godere” del paesaggio: l’area è abbandonata, l’accesso è interdetto perché la struttura è pericolante e presto o tardi crollerà, tutt’intorno si trovano solo sterpaglie e discariche improvvisate (anche di rifiuti tossici), prostitute stradali e relativi clienti.

La tettoia diroccata rischia di diventare il simbolo di una città in cui nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si degrada, in ossequio a un immobilismo di principio sostenuto da un folto partito trasversale che attraversa tutto l’arco costituzionale, dall’estrema destra (per tradizione ostile a ogni forma di progresso) all’estrema sinistra (sempre intenta a criminalizzare il capitale privato) passando per la cosiddetta società civile. Nella fattispecie, a sollecitare l’intervento della Soprintendenza è stata Italia Nostra, piccola associazione per la protezione del patrimonio culturale, conosciuta a Roma per una fiera “opposizione a prescindere” all’architettura contemporanea e, più in generale, per l’ostruzionismo nei confronti di ogni forma di innovazione e trasformazione urbana.

 

Il fatto che una sconosciuta tettoia fatiscente possa impedire la rinascita di un’area oggi abbandonata, e il rilancio dell’economia e delle speranze di una città intera, rappresenta alla perfezione la scelta cui oggi è chiamata Roma. Rimanere una città museo, periferia irrancidita e in declino di un mondo che cambia, o avviare la trasformazione in capitale moderna e dinamica, ciò che la renderebbe davvero “eterna”.

 

Fabio Sabatini è professore associato di Politica economica, Sapienza Università di Roma

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