L'aborto e la schiavitù di coscienza
L’idea di assumere ginecologi per l’interruzione di gravidanza rovescia il mondo morale. Non basta dire, come fa Ruini, che ci sono abbastanza medici non obiettori. Alla barbarie si risponde con ferocia
L’idea di assumere medici per l’aborto, e di rescindere il loro contratto nel caso poi rifiutino di eseguire aborti, supera l’immaginazione e sfida il senso comune e la morale comune. Peggio, è l’affermazione oggi facile di un buonsenso omicida appeso a una interpretazione politicamente corretta dei diritti cosiddetti riproduttivi della donna. L’interruzione volontaria di una gravidanza non è più una decisione sociale attivata in serie e limitate circostanze di fatto, non ricade più sotto la casistica almeno formalmente ispirata alla tutela sociale della maternità, come dice la vecchia legge 194 nella sua fatale ambiguità, diventa un diritto della persona che chiede soddisfazione allo spazio pubblico nella forma suprema della violazione della libertà di coscienza del medico, comprata dai servizi di stato a norma di contratto. Altro che moratoria e altre bellurie umanitarie e onusiane, è la sanzione della condanna a morte di esseri non ancora nati, piccolissime persone che si possono fotografare, che sentono dolore, che hanno una struttura cromosomica già formata e unica al mondo, che non hanno alcuno strumento di difesa contro il loro destino extragiuridico. E il medico viene trasformato in boia, esecutore di una volontà personale che nasce dalla volontà generale interpretata dal legislatore e perfezionata dalla decisione amministrativa di un bando regionale che rende obbligatorio per i tecnici della salute far scattare la ghigliottina abortiva. La parola barbarie viene spesso usata per sciocchezze, per quisquilie, ed è inflazionata: qui è la esatta definizione della cosa.
L’unica domanda che ci si può rivolgere di fronte al fatto che la grandissima maggioranza dei medici non vuole fare aborti è: perché? E l’unica risposta è che alla coscienza umana e professionale di un medico ripugna dare la morte. Per superare questa barriera, che in quanto libertà della coscienza, comunque la si intenda, è il sale delle libertà moderne e dei diritti moderni, si inventa invece la risposta molieresca del Misantropo. L’uomo è invariabilmente vizioso, non credetegli se impugna le sue convinzioni, è nell’interesse degli obiettori, per la carriera e per le condizioni di lavoro, dichiarare la loro ripugnanza e abbandonare al suo destino tragico, compresa la prospettiva dell’aborto clandestino, chi decide di abortire. Insomma, nella sua quasi interezza la classe medica fa schifo. Il mondo morale viene rovesciato: la deontologia medica, il dover essere di chi si occupa di tutelare per quanto possibile e sempre la vita umana, impone, con lo strumento della contrattazione e la minaccia di licenziamento come clausola bronzea, di dare soddisfazione a un diritto sancito dalla legge in favore del diritto alla privacy e alla felicità presunta dell’uno contro la libertà di esistere dell’altro.
Considero Camillo Ruini un maestro di razionalità religiosa, pur avendo sempre segnato con rigore il perimetro laico della mia battaglia contro la sordità morale sull’aborto, nella quale furono e sono impegnati grandi maestri di laicità e di cultura umanistica e scientifica, ma è debole e rassegnato l’argomento da lui esposto secondo cui in linea di fatto non è vero che non ci siano abbastanza medici per praticare gli aborti richiesti. Parlare in questo modo è un passare sopra la sostanza della questione aperta dal contratto per terapeuti che si impegnano, contro una penalità di licenziamento che è peggio dei contratti capestro della Casaleggio Associati ai povericristi mandati a amministrare le città e in Parlamento, a scavare nel seno di una donna e a mettere il risultato del suo amore in un sacchettino che ha l’etichetta di “rifiuti ospedalieri”. La risposta a un atto tanto inconsapevolmente feroce, a un crimine contro l’umanità peggiore di qualunque guerra e di qualunque colonialismo, deve essere alla sua altezza, deve essere civilmente feroce, uno scontro di assoluti. Il padre della chiesa di oggi, il Santo Padre, non crede ai princìpi o criteri di vita e di ragione naturale non negoziabili. Pensa che la difesa della vita umana sia una priorità pastorale da mettere di lato in favore di altre priorità, la predicazione della misericordia, la carità contro la povertà e l’egoismo, il recupero della fede personale. Questa scelta in sé sarebbe insindacabile se non fosse disperatamente autocontraddittoria, perché con un miliardo e non so quante centinaia di milioni di aborti nel mondo in trenta-quarant’anni parole come misericordia e carità si sciolgono come neve al sole. Le motivazioni della casuistica morale dei gesuiti sono misteriose oggi come nel XVII secolo, e non è obbligatorio essere giansenisti per dubitarne. Ma nella modernità laica chi ha fede in un Dio trascendente e chi afferma l’inconoscibilità della cosa in sé è unito, al di là del dogma e della speculazione filosofica, nella difesa di quel che Rémy Brague, grande filosofo e storico ratzingeriano, definisce “le propre de l’homme”, ciò che è tipico dell’uomo, ciò che appartiene all’essere umano in quanto tale. O dovrebbe esserlo. Nella schiavitù di coscienza di un medico a contratto si specchia la sordità morale di un mondo dannato in cui la regola individuale è “fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.