L'equilibrio tra indisponibilità della vita e autodeterminazione che impedisce di legiferare sulla vita
La nostra esistenza è un oggetto strano: è nostra e non è nostra, non la decidiamo all’inizio ed è frutto di legami. Meglio nessuna legge di una fatta su casi particolari
Oliver Wendell Holmes (1841-1935), uno dei più importanti e longevi giudici che la Corte suprema statunitense abbia avuto, era solito dire che occorre stare attenti a non legiferare mai sulla base di casi estremi (hard cases make bad law). Il giudice si muoveva dalla consolidata esperienza che le leggi buone, come le leggi scientifiche buone, devono coprire delle regolarità. Invece, puntuale, l’informazione cerca di trasformare e strumentalizzare casi estremi – come quello di Dj Fabo – per forzare la mano dei legislatori.
Non ce l’abbiamo con nessuno: è mestiere di chi vuole certe leggi usare l’informazione ed è mestiere dell’informazione cercare fatti nuovi e facilmente apprezzabili dal pubblico. Basta esserne consapevoli. Soprattutto, basta che ne siano consapevoli i legislatori che altrimenti finiscono per fare pessime leggi lontane dal senso comune e dalla vita comune.
Uscendo dunque dal caso specifico, con tutte le sue peculiarità e con l’immenso carico di dolore che queste ultime comportano, occorre provare a generalizzare. Quando lo si fa, il problema dell’eutanasia e più in generale del fine vita dimostra la sua immensa difficoltà. In esso si scontrano, infatti, il principio dell’indisponibilità della vita e quello dell’autodeterminazione. A guardare i fenomeni senza pregiudizi, del resto, la vita è un oggetto strano: per quanto sia propria, il suo possessore non la può decidere almeno nel suo momento iniziale. Così essa è nostra e non è nostra: per questo avvertiamo con fastidio la mercificazione della vita, degli organi, dei corpi, anche quando si è perfettamente consenzienti.
Eppure in un altro senso, dopo la nascita e l’infanzia possiamo decidere e deciderne: e anche questa è un’evidenza a cui fanno appello i difensori dell’eutanasia. Senza entrare nelle inevitabili e profonde convinzioni opposte che qui nascono e si affermano, vorrei solo notare in questo articolo che, cercando di mantenere un’osservazione disincantata, tale autodeterminazione non si può in ogni caso concepire come assoluta. La vita risulta piena di legami di ogni tipo e la libera autodeterminazione non può prescindere da essi. Siamo legati gli uni agli altri da fili alle volte invisibili ma tenaci e la scelta di ciascuno importa a tutti e ha un impatto sulla vita di tutti. Per questo al di là delle convinzioni, il legiferare su questa materia deve tenere in conto almeno che la pura decisione individualista non corrisponde ai fatti. La nostra libertà non è solo scelta ma anche risposta ai molti o ai pochi che abbiamo incontrato nella vita, è anche un’accettazione e non solo un allontanamento di autorità esterne o estranee. Così, anche nel dolore tali legami, lontani e vicini nel tempo e nello spazio, possono influire ed essere influenzati.
Mi ha sempre colpito il fatto che con la concezione individualista e autodeterminista della libertà occidentale, si sia discusso prima di aborto che di eutanasia, quando la seconda sembra avere argomenti meno problematici se si parte da una pura libertà di scelta. Tuttavia, forse, si è dovuto aspettare che l’individualismo e la solitudine sociale crescessero al punto tale da considerare come dubbia l’utilità sociale di una vita, che prima non si metteva in discussione proprio perché in tanti anni ogni vita ha certamente accumulato molti più legami di quella di un feto. Forse la traccia di una concezione di libertà come legame e adesione alla realtà e al bene sociale è più profonda di quanto non si pensi e spero che i legislatori ne tengano conto.
A tale proposito, visto che ora, non casualmente, se ne discuterà in Parlamento, penso che sia difficile andare oltre l’equilibrio attuale tra il principio dell’indisponibilità della vita e quello dell’autodeterminazione.
Le situazioni singolari sono così dolorose e così complesse che temo che la migliore idea sia quella di legiferare il meno possibile o non legiferare affatto. Le definizioni inevitabili di una legge faranno violenza all’uno o all’altro principio e all’una o all’altra situazione. Dato l’orientamento generale, già previsto dalla nostra Costituzione, forse conviene rimettersi al senso comune di parenti, amici, medici e giudici (nell’ordine di apparizione). E se è vero che ci saranno degli errori non saranno mai così gravi come quelli di una cattiva legge. La vaghezza, spesso deprecata, può essere una via d’uscita di un “caso per caso” che salva i principi senza mortificare le situazioni o appiattire ogni significato e ogni convinzione.
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