Dj Fabo e la difficoltà di porsi domande sul mistero di un'esistenza che sembrava non avere più senso
Parla padre Vincent Nagle, il cappellano che incontrò Fabiano un anno fa. “Avrei voluto dirgli che su quel letto poteva scoprire ancora tantissime meraviglie”
Quando si sono incontrati per la prima volta, l’unica in cui hanno parlato per circa un’ora, l’argomento di conversazione è stata la musica. Che era la grande passione di Fabiano Antoniani, quella cui aveva dedicato tutta la sua vita e che lo aveva fatto conoscere col nome di Dj Fabo. “Mi ha raccontato della sua esperienza e io gli ho parlato delle mia con il rock e la droga. È stato un dialogo molto aperto e profondo. E a un certo punto è stato lui a tirare fuori la questione di Dio”. Forse neanche Fabo si immaginava di poter discutere di rock e droga con un prete. Ma la storia di padre Vincent Nagle, quasi 60 anni, è quella di una famiglia americana di otto figli cresciuti a San Francisco, tra gli hippie, la fascinazione delle religioni orientali e delle sostanze stupefacenti, la Summer of Love. Poi l’incontro con il cristianesimo, la vocazione, le decisione di farsi prete e di entrare nel seminario della Fraternità San Carlo Borromeo.
Oggi padre Vincent è il cappellano della Fondazione Maddalena Grassi che, spiega al Foglio, si occupa di “assistere a 360° malati gravi non guaribili”. Ed è così che, nel giugno dello scorso anno, ha incontrato Fabo. “Un nostro fisioterapista mi parlò di questo ragazzo – racconta – in cui stava maturando il progetto che si è compiuto due giorni fa. Mi chiese di accompagnarlo a casa di Fabiano. Non pensavo che mi avrebbe ricevuto e infatti mi trovai a parlare con sua madre. Non fu una discussione tranquilla, c’era angoscia, rabbia, disperazione. Poi mi fece entrare nella stanza. Fabiano era cieco, non si accorse di me e io per 20 minuti non mi presentai. A un certo punto presi la parola e lui, sul momento, non fu felicissimo. Ma mi disse che tutti erano benvenuti a casa sua, quindi lo ero anch’io. Cominciammo a parlare e alla fine mi chiese di tornare”.
Dopo quella prima volta, però, le cose cambiarono. Padre Vincent continuò a sentirsi con la mamma, a informarsi sulle condizioni del ragazzo, ma non riuscì più a rientrare in quella stanza se non pochi giorni prima che Fabo partisse per la Svizzera. Giusto per un saluto. L’ultimo. “Proseguire il dialogo con me – dice – significava cominciare a farsi domande su cosa stava succedendo. Ma per Fabiano ormai la vita non aveva più senso. Non riusciva più a fare le cose che faceva prima, a esercitare quell’attività creativa che dava significato alla sua esistenza. Tutto si muoveva dentro due opzioni: recuperare quello che aveva perso, o compiere un atto di autonomia e controllo che ponesse fine alla sua situazione, morire. Non a caso lui, la madre e la fidanzata negli ultimi giorni ripetevano la stessa frase: abbiamo provato a fare qualcosa ma non ci sono possibilità. Era come se fosse già morto”.
Qualche anno fa padre Vincent ha scritto un libro per raccontare la sua esperienza di cappellano in ospedale (“Sulle frontiere dell’umano – un prete tra i malati”). Conosce bene le difficoltà di essere medici davanti a chi soffre come Fabiano. “Ne ho visti tantissimi che, non potendo risolvere la situazione con le loro competenze scappavano, angosciati. Ci vuole la capacità di andare oltre, di entrare in contatto con le persone, ma non è automatico”. Così come non è automatico che un malato incurabile decida di lottare per la vita. “Ci sono persone che vivono passivamente e vanno avanti perché ormai subiscono tutto, senza reagire. Ci sono quelli che lottano, ma non fanno altro che accrescere la propria rabbia. E poi ci sono quelli che cominciano a domandarsi: cosa posso fare? Cosa mi sta capitando? Che interrogano il mistero che li avvolge. Che cercano di scoprire cosa la vita può dargli ora e se c’è qualcosa per cui, nonostante la situazione, vale la pena esserci”. Anche per questo padre Vincent guarda con preoccupazione al dibattito sul “diritto alla morte”: “Dobbiamo decidere come guardare a noi stessi e agli altri. Dobbiamo decidere se la vita è un dono, che è il punto di partenza della nostra civiltà, o un problema da risolvere. In questo caso c’è solo una risoluzione vera al problema della vita: la morte”. Avrebbe voluto dirlo anche a Fabo. Avrebbe voluto dirgli che doveva “avere fiducia” e che anche stando su quel letto avrebbe potuto ancora “scoprire tantissime meraviglie. Come l’avrei amato”. Purtroppo non ce l’ha fatta. Non è più riuscito a tornare a quel giorno di giugno in cui avevano parlato di rock e droga. E in cui Fabiano “aveva tirato fuori la questione di Dio”.
generazione ansiosa