Anche il salone del Mobile fa i conti con l'ombra della guerra
Dopo l'attacco di Trump alla Siria l'entusiasmo viene meno. Ma la bellezza vista, e raccontata, nei padiglioni dà speranza
Un po', parecchio, ci avevamo preso, anche senza aver visto neanche la metà dei famosi millecento eventi del Fuorisalone. Siamo allenati, iniziamo a subodorare la truffa e la fuffa fin dal tono dell'invito e del comunicato stampa allegato (diffidate sempre delle "splendide cornici"). Lg vince il Design Award 2017 per il migliore allestimento con Senses of the future di Tokujin Yoshioka a Palazzo Reina, meravigliosa proprietà del Comune di Milano in via Bagutta appena ristrutturata: un premio ci stava a prescindere, in questo caso è ampiamente meritato.
Hanno vinto anche Giulio Cappellini, signore sempre bellissimo che questa volta ha organizzato un percorso tutto in bianco per le strade di Brera, e Tom Dixon (entrambi premio alla carriera). Vince anche lo strepitoso allestimento di Marteen Baas sotto le volte del deposito della Stazione Centrale in via Ferrante Aporti che vi abbiamo segnalato nella guida al meglio della Design Week. Press choice lo Spazio Krizia, riaperto a due anni dalla scomparsa della stilista (la nuova proprietà è la Marisfrolg della miliardaria cinese Zhu Chongyun). Grande gioia sulle note tamburellate del progetto nippo-americano Cobu, condanna unanime per la strage di Khan Sheikhoun a opera, ormai sembra assodato, del dittatore siriano Aassad, e poi tutti a dormire.
Non proprio con la coscienza tranquilla, ma insomma, this is business this is culture. Tre ore dopo, Donald Trump dava l'ordine di bombardare la base siriana di Al Shayrat, e il tema del futuro dell'abitare iniziava ad appesantirsi della polvere delle macerie. Questa mattina, nessuno aveva più voglia di commentare la serata o di ridacchiare per la smania tutta milanese di assoldare almeno tre pr a gestire ogni evento, in modo da massimizzare la possibile affluenza di ospiti, sfiorando il ridicolo. Un'ombra pesantissima è calata su questo Salone, sulle migliaia di persone che lavorano a questo momento di bellezza e di energia, e su chi ne scrive. È il dramma, e allo stesso tempo l'orgoglio, di chi scrive e testimonia solo il bello, la cultura, la creatività, la gioia, la condivisione. Per chi, come noi privilegiati, incrocia ogni giorno decine di designer che indossano l'hijab, decine di stilisti e di art director a fianco del marito che parlano solo di costruire - progetti, case, mostre che siamo - l'idea di un palazzo che crolla sotto la colossale spinta di un missile è pura, orrenda fantasia. La realtà del male fuori da una porta che non vorremmo aprire mai. I designer mediorientali che parlano con i colleghi finlandesi; la Creative Academy del gruppo Richemont che accoglie studentesse dello Shenkar College di Tel Aviv e musulmani cresciuti negli Usa. Razzismo, divisioni, differenze non esistono, oppure vengono accettati in nome del bene ultimo della bellezza, che in molti, moltissimi casi arriva ancora prima del business. Vi sembrerà una formula scontata, semplicistica, un'ennesima declinazione dell'aforisma di Schopenhauer sulla bellezza che ormai riproduciamo anche sulle t-shirt, ma il dramma e il privilegio di lavorare sulla cultura, con la cultura, in questo momento è questo. Vedere che il migliore dei mondi possibili è in effetti possibile. Anzi, c'è già.