Ci scrive Ruffini: “Perché difendo le mie parolacce per raccontare la violenza”
Il comico toscano sulla polemica scatenata dal suo intervento: “Le battute, il linguaggio e l’ironia sono serviti a dire loro: 'fidatevi di me'. Mi hanno concesso la loro fiducia, una cosa preziosa, che per me vale molto di più di tutto il resto”
Erano trentamila gli studenti collegati in diretta streaming da mille scuole di tutta Italia per seguire, lunedì 15 maggio, quattro eventi in contemporanea a Milano, Trieste, Cagliari e Matera. L'evento era stato organizzato per lanciare, alla presenza del ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli, “Condivido - Il Manifesto della comunicazione non ostile nelle scuole” progetto educativo promosso da Parole O_Stili. Ospite a Milano, l’attore comico toscano, Paolo Ruffini. Che con il suo intervento ha scatenato l'ira dei docenti e dell’assessore all’istruzione del Friuli Venezia Giulia, Loredana Panariti. Collegati da Trieste, hanno deciso di interrompere il collegamento. L'accusa? Troppe parolacce. Anche il ministro Fedeli pur dicendo che Ruffini è stato “bravo” ha detto che quando Ruffini pronunciava parolacce, “io mi tappavo le orecchie”. Riceviamo e pubblichiamo la lettera del comico toscano.
Al direttore - Parolaccia è il dispregiativo del termine parola. Tuttavia la parola è una scatola al cui interno c’è il significato. La confezione è importante ma conta di più di quello che si trova scartandola? Una parola non “accia” che sia volgare nella sostanza del significato è preferibile a una parolaccia goliardica e del tutto inoffensiva? E soprattutto la parolaccia è condizione necessaria e sufficiente alla volgarità? Quanto è volgare la censura? Quanto è volgare la distanza siderale che hanno gli adulti con i ragazzi a cui fingono di rivolgersi senza nemmeno scomodarsi ad usare lo stesso codice? Mi capita spesso di tradurre i pensieri in immagini e se provo a visualizzare una parola, oppure una parolaccia, quello che vedo è una chiave. Mi si perdoni la banalità, ma le chiavi servono ad aprire delle porte, oltre le quali si possono trovare mondi sorprendenti, come quello che ho avuto il privilegio di conoscere l’altra mattina a “Condivido” – il progetto di Parole O_Stili parlando con centinaia di ragazzi straordinari che mi hanno “lasciato entrare”. Non mi interessa rispondere alle polemiche. Oggi, come ieri, trovo infinitamente più interessante parlare con quei ragazzi, ma soprattutto ascoltarli. Le battute, il linguaggio e l’ironia sono serviti a dire loro: “fidatevi di me”. Mi hanno concesso la loro fiducia, una cosa preziosa, che per me vale molto di più di tutto il resto. Traghettati da quell’empatia abbiamo potuto confrontarci liberamente e autenticamente su temi importanti, come l’omofobia, il razzismo, la diversità, l’aggressività, e lo abbiamo fatto senza filtri e senza avere paura. Aver scelto questa chiave è stato incosciente da parte mia ma, a mio avviso, indispensabile: quello che abbiamo condiviso con i ragazzi di tutta Italia mi conferma che ne sia valsa la pena. Non usare un linguaggio comune, mettere una distanza tra me e loro, sarebbe stato volgare. Odio, intolleranza, omofobia, queste per me sono parolacce. Perché è giusto raccontare ai ragazzi che la violenza è merda. Se poi qualcuno vuole dire che la violenza è cacca… Ci sono parole poco allineate discutibilmente ironiche (ma chi decide cosa fa ridere e cosa no? Che male c’è a ridere con una parolaccia? Da Aristofane ai cinepanettoni la nostra cultura l’ha sempre fatto), poi ci sono le parole poco allineate, quelle tese a offendere, insultare e discriminare, che sono indiscutibilmente violente. Costruire una dialettica migliore non sta nel buttare fuori dalla classe i ragazzi che usano le parolacce, perché è nei corridoi che matura l’odio. I ragazzi non hanno bisogno di esclusione ma di inclusione. La maniera migliore per contrastare l’hating rimane sempre una carezza e un sorriso.
Le mie parolacce erano questo: carezze e sorrisi.
Paolo Ruffini
generazione ansiosa