Cosa deve fare l'Italia per fermare l'onda di migranti (in attesa che l'Ue si svegli)
Dal ruolo delle ong all’accoglienza. Proposte al nostro governo in attesa che l’Europa decida di fare qualcosa
Il problema non è la fotografia dell’esistente: se si pensa al quantità di profughi che oggi si trovano in Turchia, in Giordania o in Libano, gli oltre 200.000 previsti per l’Italia nel 2017 non sono un peso così insostenibile in teoria, pur se sommati a quelli già presenti. Il problema è per un verso la prospettiva: il trend in crescita rischia – se non accompagnato da misure serie – di rendere il peso insostenibile in concreto; per altro verso è il terreno da recuperare: il governo e l’attuale ministro dell’Interno fronteggiano una realtà negli ultimi cinque anni rimasta senza una guida politico-istituzionale capace di individuare le priorità, di operare le scelte necessarie, di verificarne l’attuazione. Nel lavoro intrapreso dall’on. Minniti e dai suoi colleghi dell’esecutivo ci sono profili positivi e altri da sviluppare. In questa duplice ottica passiamo in rassegna le voci principali, che rispondono al tema del che cosa può fare di più l’Italia mentre l’Europa fa nulla.
1. Rimodulare il soccorso in mare. L’annuncio di permettere l’ingresso nei porti italiani solo alle imbarcazioni con bandiera italiana mette in mora una Europa solidale a parole e crudele nella sostanza – modello Macron/Ventimiglia, per intenderci – e può costituire, se realizzato, una prima misura di contenimento. E’ però l’occasione per chiarire un punto cruciale. Dell’operazione Mare nostrum, durata da ottobre 2013 a ottobre 2014, il governo Renzi decise la fine non tanto per ragioni di costi bensì per l’evidente incremento delle partenze che essa aveva provocato dalle coste libiche, accompagnato da un altrettanto significativo aumento dei morti in mare: avviata dopo il naufragio che il 3 ottobre 2013 era costato la vita a 366 persone al largo di Lampedusa, Mare nostrum ha visto aumentare i decessi nel Canale di Sicilia da un totale di 707 nel 2013 a 3.072 nel 2014. Il ruolo che svolgono le ong che raccolgono migranti davanti alle acque libiche è nient’altro che Mare nostrum in gestione privatistica: senza alcun mandato istituzionale, surrogando il minor numero di imbarcazioni impiegate dagli stati europei operanti in quel braccio di mare. Quasi tutti i migranti recuperati sono poi condotti in Italia e dislocati nella nostra rete di accoglienza. L’autorità giudiziaria italiana stabilirà se e quali di tali ong abbiano accordi con i trafficanti di uomini. Poiché però i tempi dei procedimenti giudiziari non sono quelli delle decisioni dei governi, il quesito da porsi è se sia ammissibile che ong di varia nazionalità svolgano compiti che spettano agli stati e agli organismi internazionali. La domanda non è di stile, vista la ricaduta immediata che l’attività di soccorso in mare ha sull’Italia. E’ più che logico che uno stato sovrano affronti il nodo dell’incidenza dell’attività di tali ong all’interno della propria realtà istituzionale e sociale, non si rassegni ad accollarsi l’intera gestione del “dopo” lo sbarco senza interloquire sulla filiera del “prima”, e ponga il tema in sede europea e internazionale.
2. Rendere concreta l’istanza etica. L’incremento di attività delle ong nel tratto di Mediterraneo fra Libia, Italia, Grecia e Spagna ha moltiplicato gli arrivi e i morti dalla sponda sud: 153.842 arrivi e 3.771 morti nel 2015, 362.376 e 4.685 nel 2016, 44.776 e 1.092 nei primi quattro mesi del 2017 (si ricordi che nel 2010 arrivarono in 4.406 e ci furono 20 morti!). Si cantino pure le lodi delle ong quale emblema della solidarietà: il dato oggettivo, al di là delle intenzioni, è che il loro intervento fa crescere i morti in mare. Per una ragione evidente: se il trafficante ha la certezza che la nave soccorritrice attende a 12 miglia marine dalla costa, adopererà i natanti più economici, e quindi più insicuri, riempiendoli fino all’inverosimile, pur di ottenere il massimo illecito profitto. Il soccorso impone di condurre le imbarcazioni nel porto sicuro più vicino: escludendo che sia un porto libico (ma tale esclusione potrebbe non essere assoluta, seguendo i criteri delle convenzioni vigenti), non è detto che debba essere sempre un porto italiano. Prima dell’Italia c’è Malta, la cui area di soccorso marino è vastissima. E’ evidente che Malta non ce la fa ad accogliere sul proprio ridottissimo territorio i migranti che la corretta applicazione delle convenzioni imporrebbe di far scendere nei suoi porti; ma se il concetto di limite vale per ragioni obiettive relativamente a Malta perché, in scala maggiore, non dovrebbe valere per l’Italia? Chi stabilisce che La Valletta non può e Roma sì, e senza misura?
3. Abbattere i tempi per riconoscere o negare la protezione internazionale. Il ministro Minniti ha dato impulso alle Commissioni territoriali a ciò delegate, ha indetto un concorso per 250 funzionari chiamati a svolgere questo lavoro in via esclusiva, mentre il suo collega Orlando ha eliminato un grado di giudizio per le impugnazioni contro il rigetto della domanda di asilo. Sono misure condivisibili, che tuttavia daranno risultati a medio-lungo termine. Avendo rivolto questo sguardo lontano, quel che serve oggi per superare il periodo intermedio è investire massicciamente le risorse umane e materiali disponibili, anche a costo di ridimensionare la funzionalità di settori meno prioritari, per contrarre la durata dei procedimenti amministrativi e giudiziari. Con correttivi come l’elenco dei paesi di provenienza “sicuri”, che permettano addirittura di evitare – dichiarando l’inammissibilità della domanda – l’esame di chi proviene da stati come il Marocco, nei quali non vi è alcuna persecuzione.
4. Rendere effettive le espulsioni. Una parte delle richieste di protezione internazionale presentate variabile attorno al 60 per cento viene respinta. Decine di migliaia di migranti irregolari non avanzano neanche la richiesta di asilo. Disinteressarsi della loro sorte, lasciarli indisturbati sul territorio italiano, non organizzare una rete di dissuasione che passa anche attraverso meccanismi di espulsioni vere ha finora aggravato la questione. Non si può invertire la rotta in pochi giorni, ma si può intanto individuare coloro che da noi hanno commesso reati come destinatari in prima battuta di riconsegna al paese di origine: non è difficile.
5. Regolarizzare la prima accoglienza. L’emergenza ha concorso a provocare sprechi e mala gestione: quando un prefetto riceve in poche ore centinaia di persone bisognose di tutto non ha il tempo per vagliare le “offerte” di accoglienza non gratuita, e deve accontentarsi di quel che il mercato offre in quel momento. Poiché la storia dura da qualche anno, esigere requisiti standard – ci sono già, ma spesso si va in deroga – è il minimo del decoro.
6. Rendere l’accoglienza appetibile per le comunità. Se pretendo la ripartizione degli oneri dell’accoglienza fra tutti gli stati europei, è poi incoerente che dica “nel tuo comune sì, nel mio no”. E se reputo grave la restituzione dalla Francia dei 200 che hanno superato il confine a Ventimiglia, non sono autorizzato a transennare la via d’accesso al municipio del quale ho la responsabilità. Se un prefetto tollera che ciò accada, o ha sbagliato prima nel non usare la dovuta e cauta persuasione o sbaglia adesso a permettere che vinca l’arroganza. Le comunità però non vanno osteggiate; le loro ragioni di contrarietà meritano una risposta nei fatti: va data cogenza a quel passaggio del “decreto Minniti” che al momento è un invito a favorire lavori socialmente utili per i richiedenti asilo. Spiegando che non sottraggono lo stipendio a nessuno: la prestazione di un lavoro che va a vantaggio di tutti, da individuare sulla base delle doti di ciascuno, è un modo per corrispondere al mantenimento fino all’esito della domanda di asilo. E per impedire che per lungo tempo persone abili vaghino senza far nulla, e quindi siano sottoposte a tentazioni di coinvolgimento in attività illecite.
7. Recuperare il senso di virtù politica della prudenza. Parlando con i giornalisti sul volo Malmö-Roma il 1° novembre 2016, Papa Francesco diceva: “Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti […] di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più”. Tutti riconoscono gli enormi sforzi dell’Italia negli ultimi anni: esigere da altri che facciano di più non è egoismo, è “prudenza”.
8. Rendere “cristiana” l’accoglienza. Cibo e alloggio non esauriscono le necessità; spesso vi è l’esigenza di sostenere moralmente e spiritualmente chi ha vissuto e vive una esperienza così carica di sofferenza. E questo è compito non di ministri o governi, ma di noi cristiani e delle nostre comunità ecclesiali: il lavoro è in qualche modo più agevole se il migrante proviene da aree cristiane; se proviene da altre zone, la proposta — non certo l’imposizione — della speranza fondata su Cristo farà guardare al futuro in modo diverso e positivo. Ed è tanto più necessario allorché le famiglie dei migranti s’imbattono in leggi e in costumi antitetici ai loro: la testimonianza e la cura dei cristiani che accolgono in Europa e in occidente possono vincere le diffidenze di chi lascia una persecuzione cruenta e materiale e rischia d’imbattersi in una persecuzione incruenta e ideologica; vi è una differenza fra le due, ma riguarda il modo dell’ostilità, non l’esistenza dell’ostilità verso i cristiani. Una pastorale diffusa e omogenea per questa fascia di persone, che cresce di numero e che mostra necessità anche in senso lato culturali e spirituali, è indilazionabile. Anche questa è carità, e non di stato.