Salvatore “Doddore” Meloni: vita e morte di un uomo libero
L'indipendentista sardo è deceduto a 74 anni. Era in carcere per le sue opinioni, ma nessuno ha mai fatto campagne a suo favore. In Italia certe “eresie” sono accettate, altre no
Quella di Doddore Salvatore Meloni è una morte che deve fare riflettere. Ci sono voluti infatti quasi due mesi perché il suo caso uscisse dal cono d’ombra e perché s’iniziasse a parlare di questo romantico e anziano indipendentista sardo cacciato in prigione e che, in segno di protesta, aveva deciso di attuare uno sciopero della fame e della sete che, alla fine, ha causato gravissimi danni alla sua salute e lo ha portato alla morte. Non molti giorni fa il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Cagliari aveva perfino respinto la richiesta di arresti domiciliari. Meloni è restato dov’era, nel Centro clinico del carcere di Uta, e solo il 29 giugno è stato trasferito in ospedale, dove (all’età di 74 anni) è morto. La debilitazione conseguente a più 50 giorni di astensione dal cibo è stata fatale.
Dove ha sbagliato quest’uomo? Se è stato in galera, questo si deve a due condanne: per evasione fiscale e false attestazioni. In realtà, la questione sta altrove, perché va subito ricordato che Meloni, presidente del movimento separatista Maris, semplicemente non ha mai riconosciuta alcuna legittimità alla presenza dello Stato italiano in Sardegna. Si tratta di tesi discutibili? Certamente: come lo sono quelle marxiste, liberal, sovraniste, libertarie o di altra natura. Eppure il suo essere stato chiuso entro quattro mura a causa di opinioni, benché egli non abbia mai torto un capello a nessuno, non ha suscitato campagne a suo favore, sottoscrizioni a difesa della sua libertà di espressione, appelli perché fosse restaurato lo Stato di diritto. E questo nonostante l’età avanzata.
Meloni era un indipendentista: un fatto che già lo squalificava agli occhi della classe dirigente italiana. Per giunta era una persona semplice, dato che di professione era un autotrasportatore. Qui come in altre circostanze simili è stato facile percepire quanto la società italiana sia intimamente classista: perché una cosa è difendere la libertà di parola di un professore universitario o un romanziere, e tutt’altro è schierarsi con un uomo comune, un lavoratore che appartiene a universo estraneo a ogni salotto romano o milanese.
La carcerazione e la sua morte ricordano molto da vicino la vicenda di un’altra vittima di questa giustizia schierata a difesa della sovranità di Stato: Giuseppe “Bepin” Segato. Fuori dal Veneto, pochi oggi ricordano questo nome, eppure egli finì in carcere all’indomani della prima inchiesta sui Serenissimi che assaltarono il campanile di San Marco. Quella notte Segato non prese parte alla spedizione e in alcun modo poté essere accusato di avere svolto un ruolo attivo in un’iniziativa che, di tutta evidenza, aveva un carattere eminentemente simbolico e voleva soltanto accendere i riflettori sul problema dell’indipendenza veneta. Eppure fu condannato in quanto “ideologo”. Si prese quindi 3 anni e sette mesi per il reato di eversione: in carcere si ammalò gravemente e morì poco dopo la fine della detenzione. Cultore della storia della propria terra e certamente favorevole a una riconquistata libertà, Segato era stato molto impegnato nella promozione delle tesi indipendentiste. Ma nulla di più.
Come Segato vent’anni fa, Meloni ha rivendicato il diritto a un sogno: voleva vedere riconosciuto il diritto a battersi per una società diversa e per restituire alla sua comunità il diritto ad autogovernarsi. La sua idea era che ogni territorio dovrebbe poter gestirsi da sé e che i confini delle istituzioni dovrebbero essere decisi dai popoli stessi. Mentre oggi ci si divide tanto sul tema dello “ius soli” e insomma sulle condizioni che ci fanno cittadini di questo o quello Stato, Meloni ci ha obbligato a riflettere non solo a quale comunità sia chiamato ad appartenere chi viene tra noi, ma soprattutto chi abbia titolo a dire se un sardo è più sardo che italiano, o viceversa.
È ormai chiaro vi sono eresie e dissidenze accettate, e altre no. Il cinismo della nostra classe dirigente sono ben noti a tutte le latitudini: sotto certi aspetti, larga parte della commedia all’italiana ha costruito la propria fortuna proprio su questo. Si ha però ormai la sensazione che un certo modo gaglioffo di atteggiarsi dinanzi ai popolani (immortalato da Alberto Sordi nella sua rilettura del “Marchese del Grillo”) stia facendosi sempre più feroce, duro, indifferente.
Un brigatista poteva essere figlio di un leader democristiano, come nel caso di Marco Donat-Cattin; e un fanatico fautore di ogni rivoluzione comunista poteva provenire da una delle grandi famiglie dell’aristocrazia industriale lombarda, come nel caso di Gian Giacomo Feltrinelli. Un indipendentista come Doddore Salvatore Meloni, lo si comprende fin da nome, no. Dietro a lui non c’è mai stato alcun potere, non ci sono mai stati soldi, non vi sono mai state amicizie altolocate. È stato lasciato in prigione e a causa di tutto ciò è morto. L’ossessione giacobina per l’unità d’Italia ha prodotto un’altra vittima e ora c’è solo da sperare che il suo sacrificio possa, quanto meno, scuotere qualche coscienza.